The Project Gutenberg eBook of Amore nell'arte

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Title: Amore nell'arte

Author: Iginio Ugo Tarchetti

Release date: October 25, 2025 [eBook #77121]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1869

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

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AMORE NELL’ARTE


AMORE NELL’ARTE

TRE RACCONTI

DI

I. U. TARCHETTI

MILANO
E. TREVES & C. Editori della BIBLIOTECA UTILE

1869


Proprietà Letteraria

Lodi, Società Cooperativo-Tipografica.



INDICE


[5]

LORENZO ALVIATI

L’amore non è una potenza indisciplinabile. Come ogni altra forza naturale, dà una presa alla volontà, all’arte, la quale, checchè se ne dica, lo crea facilissimamente e facilmente lo modifica, mediante gli ambienti, le circostanze estrinseche e le abitudini.

G. Michelet.

Lo conobbi nel collegio di Valenza. Io aveva allora quattordici anni, egli ne aveva diciasette compiuti, ma il suo corpo erasi già sviluppato come a venti; in quella scolaresca di fanciulli egli rappresentava colla sua statura elevata, colla sua testa di Apollo, un personaggio assai più imponente del maestro. Quell’immagine mi richiama le memorie più dolci e più pure della mia fanciullezza, mi evoca scene obliate da lunghi [6] anni, rimembranze confuse, sulle quali il mio pensiero non sa tanto arrestarsi e scrutare da ritesserne intatta la tela. Difficilmente la nostra memoria ha la virtù di evocare uh passato di quindici anni; ma spesso in quelle tenebre che lo circondano rimane un filo di luce che ci guida a rintracciare le gioie; spesso basta il profumo d’un fiore, un filo d’acqua, un suono, un nome, una fronda, per richiamarci le immagini di alcuni affetti, le circostanze di alcuni avvenimenti che si erano dimenticati da anni. Ma sono scene che l’intelletto illumina ad intervalli, a bagliori; quell’edificio si sfascia ricostruendolo; la memoria evoca e passa, poichè nella lotta che noi combattiamo col dolore non ci schermiamo che dal dolore dell’istante: nessuno potrà lottare ad un tempo colle sofferenze riunite di tutta una vita.

Non vi è mai accaduto di trattenervi in quelle lunghe notti d’inverno a meditare vicino al focolare, e, rimescolando le ceneri già fredde, rinvenirvi un piccolo carbone ancora acceso? Lo avrete veduto brillare in quel momento d’uno splendore vivissimo, ma subito impallidire ed estinguersi al contatto di quella luce a cui si era sottratto per sempre. Così è delle memorie. Esse non si arrestano più d’un istante; esse [7] ricompariscono e fuggono; la loro apparizione è simile, nel mondo immaginario, all’apparizione fantastica dei trapassati: si mostrano e si dileguano, splendono come un baleno nella notte dell’intelligenza e si estinguono. E che cosa sono in fatto le memorie se non le reliquie della nostra vita morale, le sue salme, i suoi morti? È strano come la maggior parte degli uomini consideri la vita come un avvenimento continuato, e non s’avveda come noi moriamo ogni giorno, come seppelliamo ogni sera una parte di noi, anzi la nostra intera esistenza morale, poichè la sola vita fisica costituisce nella sua decadenza progressiva, un fatto isolato e compiuto. E quante vite non abbiamo noi sepolte prima di morire! su quante care esistenze di un giorno non dobbiamo noi piangere! speranze, affetti, piaceri, nobili aspirazioni alla virtù, ebbrezze ineffabili dell’amore..... a trent’anni la vita non è più che un immenso cimitero, sulle cui tombe noi veniamo a lamentare le gioie dell’esistenza che ci è sfuggita, e l’aridità dell’esistenza che ci rimane. — Dolci e serene memorie dell’infanzia, voi formate tutto il segreto de’ miei affetti, tutto il tesoro delle mie più care predilezioni. Oh potessi, dal sepolcro in cui giacete, evocarvi almeno un istante, per riabbellire [8] del vostro sorriso fugace questi miei giorni sconsolati e sofferenti!

Povero Lorenzo! E parmi di rivederlo là, sotto quei pioppi, ove venivamo a riposarci dalle nostre passeggiate delle vacanze. Là il Po si allarga, e forma alcuni seni incantevoli circondati da alberi secolari. Uscendo pieno ed unito dalle gole dei colli, si versa e si dilata nella pianura, ove le sue acque creano una vegetazione rigogliosa, e le rapide selvette dei salici, i cui fusti riuniti e raggruppati dai rovi e dai lentischi, coprono gli stessi sabbioni delle rive. Non un eco, non un grido sotto quei pioppi maestosi e giganti, le cui sommità riunite come un immenso padiglione ti nascondono spesso la vista del cielo. Nel meriggio dei giorni canicolari tu non v’intendi che il ronzio delle ali delle libellule o delle mosche dorate, e solo nel mattino il lamento malinconico del cuculo ne risveglia gli echi più lontani e sonori. Allorchè quei lunghi fusti giganti, coperti dei loro ampi mantelli di licheni, emergono colla loro bianchezza dalle prime ombre della notte, sembrano acquistare forme o movenze di fantasmi; un mistero ineffabile di malinconia si diffonde per tutti quei luoghi; la natura vi siede mesta, quasi ritrosa, e vi crea nel silenzio i prodigi più [9] meravigliosi della sua vegetazione. Vi sono infatti delle foglie grandi come ventagli, dei convolvoli ampii come le ninfee, dei livertisii che s’innalzano coi loro fusti tortuosi fino alle sommità più elevate degli alberi. E dove le sorgenti si dilatano in qualche seno e formano alcune bolle o alcuni canali, l’acqua si cinge tutto all’intorno come di una corona, e sono masse di piccoli fiori bianchi simile alle margherite dei prati; ma l’onda vi ha la trasparenza del cristallo, e vi si vedono andare e venire frotte timorose di pesci, mentre la luce riflette nel fondo sabbioso le forme singolari dei ragni ballerini che nuotano colle loro lunghe gambe su quell’immobile superficie d’argento.

Ritornando alle memorie più remote che la mia anima ha conservate di Lorenzo, mi si affacciano per le prime queste scene incantevoli della natura, che furono testimoni dei nostri dolori e delle nostre prime confidenze. Per un rapporto misterioso tra la natura degli esseri e la nostra natura spirituale, quasi sempre il carattere degli uomini si informa a quelle impressioni esterne che lo hanno colpito nei primi anni della vita. Le nostre idee, le nostre aspirazioni, i nostri giudizii avranno sempre un rapporto esatto, benchè incomprensibile, [10] colla natura dei luoghi e delle cose che furono testimonii della nostra infanzia. Io sento che vi ha in me, nella mia indole qualche cosa di quel teatro della mia fanciullezza, di quei campi, di quelle acque, di quella vegetazione; in certi miei sentimenti parmi di scorgere un rapporto ben definito col profumo di certi fiori, colle loro tinte, coll’azzurro melanconico di quel cielo. Tali fenomeni, non che gli altri tutti della nostra natura, si manifestano, io credo, in tutti gli uomini; e se molti tra essi non se n’avvedono, è perchè la loro indole non li porta a meditare su sè medesimi; ma io penso che essi tutti sieno o possano essere poeti ad un modo: tutti subiscono le stesse impressioni, concepiscono le medesime idee; la diversità del loro valore sta nella diversità dell’espressione, nella forma — la letteratura non è che arte — noi vediamo che uomini turpi nella loro vita privata scrissero pagine sublimi; uomini sublimi per domestiche e sociali virtù, non seppero costrurre un periodo secondo le esigenze dei rettori. Se ciò non fosse, come avviene che un libro è inteso da tutti? trova un eco in tutti i cuori?

Lorenzo ed io ci amavamo di un affetto ardentissimo; ma il suo amore sentiva quasi della paternità, ed egli si tratteneva meco [11] come avrebbe fatto con un fanciullo; le sue confidenze erano affettuose, piene, espansive; ma egli pareva rivolgerle a sè più che a me stesso; non pareva chiedere a me che di essere ammirato o compianto. Nè io indovinava allora perchè avrei dovuto compiangerlo: mi sfuggiva il segreto de’ suoi dolori — giovine, vigoroso, intelligente, libero come il suo pensiero, padrone di vagare a suo talento per quelle campagne, di contemplarvi tutte le mattine il sorgere del sole, di cercarvi a sua posta dei nidi, di farvi una colazione sull’erba, di sottrarsi, quando il volesse alla dura tirannia dello studio — tutto ciò mi parea troppo dolce perchè io potessi crederlo sventurato, perchè non vi fosse tra noi chi non avrebbe mutata la sua sorte con esso.

I fanciulli, più che ogni altro, sono avidi della propria libertà, nè smarriscono questo amore che in proporzione delle abitudini che devono contrarre vivendo. La vita sociale è una lotta che espelle a dramma a dramma la natura degli uomini, fino alla completa trasformazione dei loro caratteri. Le disillusioni, gli inganni, le cure, le lunghe infermità dello spirito, l’ipocondria, le terribili prerogative dello scetticismo e del dubbio non esistono nello stato naturale: esse non sono che un prodotto della società. [12] Nessuna legge havvi nella natura la quale ci faccia conoscere che il corpo e lo spirito debbono invecchiare ad un tempo, partecipando alle stesse fasi di decadenza: nulla potrebbe corrompere in essa la verginità primitiva dei nostri pensieri e delle nostre aspirazioni; in essa la vita non potrebbe essere che una fanciullezza eterna, che una giovinezza perenne.

Lorenzo era nato in un piccolo villaggio del Piemonte. Suo padre, costruttore e suonatore di organi, era venuto con lui, ancora bambino, a stabilirsi in una grande fattoria, di cui aveva come ereditato per titolo di parentela, il diritto e i vantaggi dell’amministrazione, dall’amministratore defunto. Quel vasto stabilimento era situato sulla riva destra del Po, in una posizione incantevole. Lorenzo vi aveva passato la sua infanzia, e non era stato mandato alle scuole che a dodici anni compiuti. Suo padre aveva preferito valersene fino a quell’età per i servigi che poteva prestargli nel suo mestiere; e poichè egli era uno dei più vaghi fanciulli dei dintorni, inorgoglivasi di condurselo seco a tutte le feste dei paesi vicini, ove egli suonava nelle chiese ed ove il suo giovine allievo era incaricato di muovere i mantici degli organi. Ma dopo alcuni anni quest’umile attribuzione [13] era divenuta tediosa a Lorenzo: egli aveva già appreso da suo padre i primi erudimenti della musica, e aveva voluto ribellarsi a quella schiavitù che non lo rendeva che uno strumento dell’arte, che lo condannava ad ignorarne per sempre i segreti. Non era artista, ma voleva divenirlo; non ne aveva il genio, ma lo presentiva. Egli aveva conosciuto che doveva in qualche modo dirozzare la propria intelligenza, apprendere a frenare i trasporti della sua natura impetuosa e selvaggia, prima di abbandonarsi allo studio dell’armonia, allo studio di un’arte in cui tutto è raccoglimento e pensiero; si era perciò deciso di frequentare le scuole, e fu allora che io lo aveva conosciuto a Valenza.

Pochi fanciulli si erano sviluppati come lui a dodici anni. Lorenzo attraversava il Po a nuoto quando era gonfio, prendeva i nidi delle ghiandaie sulle punte più elevate dei pioppi, raggiungeva le lontre alla corsa, aveva disegni e ardimenti proprii di un’età più matura; onde soffriva di quell’inazione a cui lo condannavano le discipline dello studio. Non vi si dedicò che per cinque anni, e a malincuore: si sarebbe detto che egli vi interveniva per una violenza che la sua mente esercitava sulla sua natura, per una forza di volizione [14] straordinaria: la sua intelligenza era aperta, forte, serena: dopo un anno di studio egli ci aveva raggiunti, poco dopo ci aveva superati, e in breve tempo eragli rimasto più nulla da apprendere di quelle aride e sterili cognizioni, di cui si era sempre pasciuto lo spirito, e impicciolite e ingannate le nobili aspirazioni della gioventù nelle scuole.

Tutto era stato precoce in lui; la natura vi aveva sviluppato l’uomo prima dei fanciullo; alla sfrenata vivacità d’un istante, era successa una calma pensierosa e profonda; tutta la potenza della sua vitalità si era trasfusa nell’operosità febbrile dello spirito; si sarebbe detto che quella vita che appariva in lui come raddoppiata, fosse pur duplice nella forza e nella celerità della sua azione. Ed egli lo sentiva; egli aveva forse il presagio di un’esistenza breve e affannosa, e affrettavasi a trasvolare con rapidità sull’oceano de’ suoi dolori e delle sue gioie.

E infatti tutte le anime elette, tutte le intelligenze elevate hanno provato questa impazienza tormentosa, quest’avidità irresistibile dell’avvenire, questo bisogno di pascere lo spirito delle dolci seduzioni dell’ignoto. Oh potessi divorarmi la vita! È il voto, è l’esclamazione di tutte le intelligenze [15] superiori: voto e aspirazione eloquente, che rialza un lembo della mistica cortina del futuro, che le riconforta e le rassicura del loro destino immortale. Nate per l’eternità, esse sentono il peso del finito, e anelano di spezzare i legami della materia che le incatena e le opprime.

Un giorno Lorenzo si avvide che le sue guancie incominciavano a portare i segni della pubertà, e che in mezzo a noi tutti, egli appariva troppo discorde d’anni e di cuore per rimanersene ancora in quella spensierata società di fanciulli. Ci strinse la mano e ci disse addio — lo avremmo riveduto ne’ suoi boschi, e chi sa.... forse lo avremmo anche incontrato in quella vita sconosciuta e svariata che ci rimaneva a percorrere.

Ci separammo con delle lacrime.

Sei anni dopo io aveva compiuto i miei studii, e stava per abbandonare il collegio, quando mi sovvenni di Lorenzo che non aveva più riveduto durante tutto quel tempo, e pensai che egli mi avrebbe abbracciato volentieri, e che separandomi allora da lui avrei dato anche un addio affettuoso, quasi più colmo, più intero, alla mia fanciullezza, a’ miei sogni, a quel mondo sì lusinghiero e sì dolce dal quale stava per dividermi per sempre. Belle colline del [16] Po, dove io non aveva che venti anni, e che attraversai in quell’incantevole mattino di Agosto per recarmi alla casa di Lorenzo! Ripasserò io ancora quei colli in un mattino sì delizioso come quello? e potrò io ripassarli con venti anni soltanto?

Era lui: seduto presso una siepe di carpino, leggeva ad alta voce Le vite di Plutarco; mi riconobbe da lontano, si alzò, mi raggiunse e mi gettò le braccia al collo, esclamando — mio caro amico, mio caro fanciullo! Fui colpito da questa parola: fanciullo. Era sempre quella superiorità d’anni, d’intelligenza e di cuore che aveva dimostrata nel collegio; ma era una dolce superiorità che non sentiva dell’orgoglio, che non voleva esser tale che per amare e proteggere; era l’espressione di quell’elevatezza morale che tutti gli uomini acquistano più o meno coll’esercizio delle passioni e del dolore.

Allorchè due persone s’incontrano per la prima volta ha luogo tra le loro anime una lotta tacita e ostinata, il cui esito è quasi sempre immediato, e per la quale una di esse si eleva ed impone, l’altra si sottomette e obbedisce. Vi sono delle anime orgogliose che contendono a lungo la loro supremazia, e non potendo serbarla, fuggono dalla lotta; vi sono delle anime dolci [17] che vi si abbandonano volonterose, che si affidano a un altr’anima sorella, e gioiscono di questa dolce sottomissione. Tali sono la maggior parte delle donne coll’uomo, tale era io con Lorenzo.

Ma quando pure non l’avessi conosciuto che in quell’istante avrei potuto esitare ad abbandonargli tutto me stesso, come ad un fratello o ad un padre? Vi era qualche cosa di affascinante nel suo viso, qualche cosa di magnetico nel suo sguardo; il suono della sua voce era dolce e severo ad un tempo; i suoi modi affettuosi, ma energici, la sua persona bella e aitante; e poi quella sua testa di Giove, que’ suoi occhi neri e inquieti, quelle linee maestose del suo viso, quelle ciocche massiccie di capelli, mi davano l’idea di una di quelle divinità greche scolpite da Fidia, di cui il tempo ha come paralizzati i rigidi lineamenti del volto. Se la natura mi avesse creato donna avrei trascorsa la mia vita a’ suoi piedi.

Passammo insieme un giorno felice; andammo a risalutare quei boschi, quelle siepi, quelle campagne; risalimmo a nuoto la corrente: la natura era tutta una festa; pareva sollevarsi da tutto il creato una voce che dicesse: — amate, esultate, folleggiate, tutto è vostro quanto vi circonda, inebbriatevi di me, benedite alla gioventù ed all’amore!

[18]

Tornammo silenziosi, raccolti, oppressi da quell’esuberanza di affetti e di memorie che la natura aveva versato nelle nostre anime.... Ma quel silenzio di Lorenzo racchiudeva in sè qualche cosa di più opprimente che non fossero le sole rimembranze del nostro passato. Come avviene di tutte le costituzioni irritabili e pronte, egli si era trasformato in un istante: era ritornato fanciullo, aveva folleggiato meco tra i boschi, sugli argini, tra le fresche correnti del fiume; ma ora la meditazione lo aveva richiamato a sè, e la natura aveva ripreso il suo dominio, abituale e imperioso.

Gli chiesi che avesse. Egli mi abbracciò con trasporto e mi disse: — ti narrerò tutto stassera; se tu sapessi quale trasformazione ha subito in questi anni il mio carattere; come tutto mi apparisce disprezzevole e vano; come la mia anima, elevandosi ad investigare il destino umano, e creandosi una vita in sè, è rimasta imponente e isolata nella gran vita che le si agita d’attorno. Speranze, amori, piaceri, tutto si è trasformato per me, tutto si è concretizzato in una sola idea, tutto ha assunto un solo carattere, una sola legge, una sola rivelazione, quella dell’arte. Essa ha resa la mia fibra sì irritabile, la mia immaginazione sì feconda, la mia sensitività [19] sì sofferente e sì viva, il mio orgoglio sì esigente e severo, che io mi trovo collocato quaggiù come in un mondo strano ed inesplicabile, di cui non giungo a percepire nè la natura nè il fine. L’arte mi ha creato un mondo — essa sola — e se io potessi popolarlo colle creature della mia fantasia, dar loro forma e esistenza, vivere con esse e per esse, non avrei più nulla a rimpiangere del mio destino; ma ohimè! nulla esiste quaggiù tranne che l’ideale, e l’ideale è l’ombra, è il fantasma, la parodia — la realtà che noi ci affanniamo di raggiungere è oltre la vita.

Egli tacque, ed era mesto; io lo contemplava tacendo; egli rappresentava in quell’istante per me una di quelle creature straordinarie in cui la bellezza fisica e la bellezza morale rivaleggiano, e l’una presta all’altra una forma sensibile, e l’altra vi si rivela vestendola della sua espressione celeste.

Ritornammo alla fattoria, che le prime ombre della notte si disegnavano su quelle vaste lande di arena lasciate asciutte dall’acqua; il cielo si andava qua e là popolando di stelle; alcuni fuochi fatui brillavano in quei seni dove l’acqua stagnante aveva raccolte e corrotte le alghe; gli uccelli annidati sulle quercie, mormoravano [20] strane voci dai loro nidi, i cani si rispondevano dalle valli, e gli ultimi rintocchi dell’avemaria, così prolungati dagli echi e dai venti, sembravano gemere su quel non so che di funerario e di triste di cui si veste la natura nel piangere la sua morte di un giorno.

Lorenzo ed io ci tenevamo per mano camminando; spesso le nostre dita si allentavano o si stringevano convulse; le nostre sensazioni erano divenute comuni, le nostre vite si effondevano l’una nell’altra, e noi lo sentivamo tacendo.....

Oh come è nobile la gioventù, come è potente nelle sue concessioni, come è generosa e severa! E perchè la natura ci ripudia a trent’anni? Perchè quegli alberi, quelle montagne, quegli astri non hanno più una voce per noi? Ogni uomo è artista, è poeta nei primi anni della vita; è un arido egoista negli ultimi; e quei pochi esseri che un’eccessiva sensibilità ha condannati a rimanere eternamente fanciulli, errano smarriti nel mondo, sbattuti come un fragile schifo su questo oceano tempestoso della vita. È la società? è la natura? Domandiamolo a noi stessi, noi che non abbiamo più che il conforto disperato del dubbio, ma spargiamo di fiori il sentiero della gioventù, inebbriamola di amore [21] e di illusioni; non riveliamo ad essa questa terribile verità che ogni uomo che è giunto a trent’anni, è già sopravvissuto a sè stesso.

Era un suono delicato e lamentevole, un arpeggiare sommesso di pianoforte, forse una di quelle celesti melodie di Schubert che non si odono mai senza piangere.

— Ascoltiamo, mi disse Lorenzo — e ci sedemmo sul limitare della porta — è Adalgisa che suona; essa non ha cantato più da tre giorni, certo la povera fanciulla è sofferente, e la sua malattia glielo avrà vietato.

— Chi è dessa? gli chiesi commosso dalle note melanconiche di quella musica.

— Una donna che mi ama, diss’egli, una creatura sventurata; oserei dire un angelo se le tristi passioni che si sviluppano colla materia non ne contaminassero la natura privilegiata e celeste. L’infelice, aggiunse Lorenzo, è travagliata da una malattia terribile, la cui azione è dolce, lenta, sicura, mortale senza nulla svelarle della morte, dall’etisia: questa infermità non è che uno svolgersi più rapido della vita, in cui tutte le nostre facoltà si moltiplicano e si consumano nella attività straordinaria della loro azione. L’anima dell’etico acquista facoltà di nuovi e grandiosi concepimenti; la sua sensibilità è [22] squisita, la bellezza delle sue forme incantevole, l’espressione e la mollezza dei suoi profili ineffabile. Adalgisa aggiunge alla sua avvenenza naturale le fatali attrattive di questa infermità.

— E tu l’ami? gli chiesi.

Lorenzo stette un istante pensieroso, poi mi disse risoluto:

— Non l’amo; o almeno, aggiunse correggendosi, non l’amo di quell’amore che si concepisce quaggiù dagli uomini. Dopo che una fatale avidità di lanciarmi nell’avvenire mi ha fatto conoscere quali frutti maturassero sull’albero della vita e mi ha allettato a raccoglierli, la mia anima ha sentita la vanità di questi piaceri; essa ha compreso l’avvilimento che le ne proveniva fruendone, e si è formato un ideale di purità e di perfezione morale, a cui dirigere tutte le sue aspirazioni e i suoi voti. Non credo alla donna, diss’egli, non ne ammiro che la bellezza incantevole delle forme; non credo all’amore, non ho fede che nel godimento che ne deriva. L’amore di un’anima elevata, quello sforzo che ella compie per avvicinarsi alla divinità col culto del buono e del bello, non può essere diretto ad una creatura la quale non può darvi che della voluttà, la più vana di tutte le sensazioni; non [23] può essere rivolto al conseguimento di un piacere che vi degrada. L’amore ha tale scopo nella donna; esso non può essere concepito da lei disgiunto da questo fine, come da quella che vi è portata dall’istinto della maternità e da una minore elevatezza di concezioni, di aspirazioni e d’ingegno. Vi ha oltre a ciò nella donna un dolce sentimento di sottommissione, un delicato desiderio di confortare di gioie e di piaceri la vita dell’uomo che l’ha scelta a compagna — gioie e piaceri che ella non può, che ella non sa offrire che offrendosi. — La perfezione maggiore del suo essere, l’irritabilità della sua costituzione la rendono più atta a sentire i piaceri e più avida a procurarseli; ed è perciò che la natura ha collocato in lei una dose più grande di pudore, che non è che una ipocrisia della sensualità, e che non ha altro scopo che di frenare le ingenue rivelazioni dell’istinto. Ma perchè tu comprenda tutto ciò, diss’egli, perchè tu intenda come quell’amore dell’ideale che ci infiamma nei primi anni della giovinezza, e ci guida a porgere un omaggio alla virtù come linguaggio del bello, al bello come rivelazione del buono, escludendo ogni appetenza di godimento, per ciò solo che noi siamo ancora dominati dal sentimento dell’arte e [24] della poesia, sentimento innato nell’uomo, possa così miseramente trasformarsi e rivolgersi al culto esclusivo del piacere, è d’uopo che io t’accenni quella triste esperienza della vita che mi fu dato di raccogliere nei primi anni della nostra separazione. Spesso i fiori che intrecciano la nostra corona non si distaccano che per opera di quella mano alla quale era dato di aggiungerne, non si avvizziscono che per ciò solo, che noi li avvolgiamo nell’atmosfera velenosa delle nostre passioni, e per un frutto amaro della terra non esitiamo a contaminarli nel fango.

Morto mio padre, io mi sono avventurato nella vita, nella vita agitata, clamorosa, elegante; nei grandi centri ove la mia gioventù e la mia arte mi avevano aperta una via. Mio padre aveva accumulate molte ricchezze durante la sua vita operosa e modesta: un giorno mi trovai solo nel mondo, ma mi trovai dovizioso: aveva tributato alla mia arte otto anni di studii indefessi: le prime creazioni del mio genio mi avevano dato fama di artista valente; aveva ventidue anni, il mio volto era l’espressione fedele della mia anima, e le mia anima era nobile e pura; avevo del coraggio e del cuore, e mi gettai risoluto nell’avvenire.

[25]

Questo battesimo sociale che chiude la vecchia vita e ce ne riapre una muova apporta spesso con sè molte gioie e molti, dolori. Io non ebbi che dolori. Non era la mia anima suscettibile di provare la gioia? Forse lo era, ma non per quella presso la quale si affannano tutti gli uomini. I tripudii del mondo erano troppo o troppo poco per me; mi opprimevano, e mi lasciavano un gran vuoto nel cuore: più io correva verso di loro, e più me ne trovava lontano; avrei voluto vedervi un’entità, una cosa concreta, uno scopo, un soddisfacimento nobile e pieno, e non vi vedeva che il nulla.

Amai. Chi non ha amato o non ama? Era stato il delirio della mia gioventù, il sogno di tante notti, lo scopo della mia arte. Predispormi coll’arte all’amore, prepararmi l’animo ad accogliere questo sentimento e a sentirlo, ingigantirmene l’ideale, rivestirlo di tutte le illusioni, di tutte le parvenze possibili, ecco ciò che io aveva vagheggiato nel silenzio di questo ritiro, prima di avventurarmi nel mondo.

Ma gli uomini tutti e la gioventù sovratutto, credono che lo scopo dell’amore sia la donna, non distinguono tra il sentimento e la sensazione, fanno di queste due cose disparatissime una cosa sola, e [26] chiedono più tardi a sè stessi: che cosa era l’amore? avrebbero dovuto chiedere: che cosa era la donna?

Io pure ho ingannato me medesimo: ho creduto che tale fosse lo scopo di questo sentimento e mi affrettai a raggiungerlo. Mi era creato di esso un ideale abbagliante, lo aveva vagheggiato per tanti anni, non aveva mai dubitato di realizzarlo; e quando aveva abbandonato per sempre la casa di mio padre, aveva detto a me stesso: — avrò anch’io un amore.

Ohimè, io non sapeva, che un artista non può amare che l’amore, che due affetti sono troppo per esso, che quell’ideale che egli si è creato, non è che l’ideale dell’arte, che nessuna creatura al mondo può renderglielo in tutta la sua sublimità, può possederne tutte le forme e i colori.

Ma che cosa è l’arte? È dessa che ci conduce all’amore, o è l’amore che ci conduce all’arte? quale dei due è l’essenza e quale è la forma? quale è quello che rivela, e quale è quello che è rivelato?

Non ho potuto comprenderlo ancora; egli è però ben certo che ogni grande anima si è manifestata coll’arte, e che nessuna di esse ha potuto sottrarsi al dominio dell’amore.

[27]

Ho amato anch’io una donna, una creatura non migliore e non peggiore delle altre, un essere vago e felice, quali ne incontriamo spesso nel mondo — esseri che sorvolano su tutto, che aman tutto, che spargono delle rose su tutto; che versano delle lacrime e non piangono, che sorridono e non gioiscono, che non potrebbero essere felici e lo sono. Si chiamava Regina, aveva vent’anni ed era vedova. Viveva sola, aveva blasoni e livree, aveva ammiratori ed amici, aveva arredi e palazzo da sultana, era superbamente bella e orgogliosa. L’aveva veduta e l’aveva segretamente ammirata, mi pareva che la sua avvenenza avesse sorpassato la bellezza di quel tipo immaginario che io portava meco nel cuore; mi pareva che il suo amore avrebbe dovuto colmare ad esuberanza quel vuoto che io sentiva in me da gran tempo. Volli ispirare dell’affetto e l’ottenni, volli smarrirmi nella mia passione e lo feci.... non ne ritrassi che amarezza e sconforti.

La vedeva ogni giorno lungo i viali cavalcare colla spigliatezza d’un giocoliere e coll’ardimento di una amazzone sorridere e pure atteggiarsi a mestizia. Era sempre sola, un palafreniere la seguiva da lontano; e quando io passava [28] presso di lei mi fissava in volto gli occhi con espressione di affetto indicibile! Ne fui presto ammaliato; era il mio primo amore — il mio ultimo — mi vi abbandonai come un fanciullo.

M’incontrava con lei ogni giorno durante le sue passeggiate; e benchè non avessi osato o potuto dirle il mio amore, e benchè ella del paro mi avesse tutto taciuto nessuno di noi due ignorava di essere amato, e non attendeva che l’occasione di accertarsene. Anche questa occasione venne. Io aveva dato una sera un concerto e vi era stato applaudito: il teatro era affollatissimo, l’uditorio silenzioso ed intento, io stesso agitato da una commozione indicibile; era giovane e artista, e aveva destato in tutti gli animi un interesse profondo, una viva ammirazione di me: il mio trionfo era stato facile ma non era stato meno completo; mi erano stati gettati dei fiori, molte signore si erano tolte dai capelli le loro camelie e le avevano lasciate cadere sul palco: io ne aveva raccolto una parte, quando nell’alzare lo sguardo scorsi Regina che mi gettava colla sua piccola mano coperta dal guanto un ricco mazzo di fiori. Rimasi indicibilmente confuso; accennai appena del capo in atto di ringraziamento, e mi ritrassi stringendomi al seno quel dono.

[29]

Quando fui nella mia camera, nell’appressare alle labbra quel mazzo, vi scorsi un piccolo brano di carta arrotolata. Lo svolsi, era un foglietto da taccuino dorato nei margini: su cui ella aveva scritte colla matita queste parole:

«Siete degno del mio amore, e ve ne ringrazio. Vi posso scrivere queste righe perchè sono sola, e posso farlo perchè ho dell’affetto per voi. Voi siete un grande uomo, ma avete la timidità di un fanciullo: venite domani a ringraziarmi di questa lettera.»

Regina.

Rimasi profondamente impressionato da quella lettera. Non era così che io avrei voluto conoscere di essere riamato; quelle parole non mi rivelano quell’amore casto, esitante, ritroso, che aveva desiderato di scorgere in lei, che aveva sentito fino allora in me stesso. Non conosceva ancora il linguaggio e gli ardimenti di una passione sensuale, ma ne aveva avuto in quelle parole una intuizione piena e scoraggiante. Cercava un amore puro, quell’amore che tutti gli uomini cercano a vent’anni, e non vi trovava che un amore di progetto, un amore già quasi colpevole nella prima, nella più timida, nella più santa delle sue [30] rivelazioni. Ne era turbato; avrei voluto trovare in me la forza di non andarvi, ma mi sentiva sì debole anche dinnanzi a quell’affetto, che mi era impossibile il combattere il mio cuore. La natura e l’istinto trionfavano. Io ignorava che le espressioni di quel foglio erano il linguaggio esatto di un sentimento intorno al quale gli uomini si formano generalmente un falso concetto, erano la rivelazione del vero amore, quale egli è, quale deve essere: gli uomini non tengono mai una giusta via di mezzo nell’uso e nell’apprezzamento che essi ne fanno; prima di vent’anni domandano ciò che la natura non può dare, che la stessa innocenza rifiuta — il sentimento puro e intangibile; dopo le prime disillusioni non chiedono più che la voluttà, negano la sua fusione col sentimento — non vogliono più che il piacere. La donna si dà, ma non si dà mai sola, dà il cuore con essa: la donna soltanto sa amare.

Lottai, ma mi era impossibile sottrarmi alla mia passione; andai da Regina. La trovai, splendida, superba, raggiante; non l’aveva veduta mai così bella. Non appena fummo soli mi si gettò tra le braccia e mi baciò sulle guancie, eccitata da una commozione che pareva sincera. Provai [31] nondimeno una gioia meno intensa di quanto non lo fosse il dolore che la mia anima sentiva in quell’istante. Avrei desiderato di averlo ottenuto dopo lunghi giorni di amore quel bacio; ma averlo così, senza conoscersi ancora, senza avere ancora ragione di amarsi.... il primo bacio, quello che non si dimentica più, quello che segna il primo periodo della nostra esistenza morale!..... Ah, tutto ciò parevami assai doloroso!

Queste considerazioni si agitavano dentro di me in quell’istante medesimo in cui ella pendeva sul mio seno, e aspettava parole colme di passione e di affetto. Non ne dissi, non avrei potuto dirne. Regina si sciolse dalla mie braccia, e guardandomi con occhi pieni di meraviglia e di amore, esclamò con suono di dolce rimprovero:

— Non mi amate voi dunque? Mi avete dunque ingannata?

Dio buono! ingannata..... e come? Apprezzava dunque ella tanto il nostro amore? Era amore vero e sentito? Era un abbandono logico, naturale, doveroso quello di gettarsi tra le mie braccia? Mi parve di comprendere qualche cosa: mi affrettai a rispondere, non meno commosso di lei:

— Perdonate, è una strana confusione di idee che si è formata nella mia anima [32] è gioia, è amore, è sorpresa, sono mille sensazioni che mi opprimono per quanto siano dolci e nuove, anzi perchè sono tali mi opprimono.... Non ho mai amato, Regina, non fui mai amato; è naturale che io debba trovarmi così confuso ed oppresso, così dolcemente oppresso... avrei bisogno di sollevarmi colle lagrime; se fossi, come voi dite, un fanciullo, se fossi solo, vorrei piangere, e piangere fino a morirne.

— Quanto siete sensibile! mi disse Regina, quanto siete nobile e buono! Ed è in vero la prima volta che amate? e son io che vi avrò inspirato il primo amore, che potrò farvi conoscere le prime dolcezze di questo sentimento? Oh ditemi che io non m’inganno, che mi amate; ho osato tutto con voi, ho osato troppo, non punitemi col vostro silenzio, con una riserbatezza che mi offende, perchè mi fa supporre che il vostro cuore abbia emesso un giudizio troppo severo su di me.

Compresi che ella mi amava veracemente, che nel suo stesso abbandono, nella sua stessa felicità vi era la prova più eloquente del suo amore. È dell’amore che io doveva lagnarmi, non di lei; e mi accinsi a rassicurarla con quanta potenza di persuasione io seppi attingere dalla mia mente sconvolta ed agitata. Passai seco alcune ore — ci separammo commossi. — Quando [33] fui solo nella mia camera mi raccolsi e piansi lungamente, piansi per la cessazione di un’illusione che avrebbe dovuto accompagnarmi per tutta la vita. Era quello l’amore? Era così che lo concepiscono gli uomini, che deve essere concepito da tutti gli uomini? E perchè formarsene un ideale così elevato? Che cosa è l’ideale? Che cosa è il sentimento in amore? Può egli l’amore stare da sè, rinunciare alla sensazione che ne costituisce l’essenza, che unicamente lo crea? Poichè non è il sentimento astratto che ci unisca indissolubilmente alla donna, ma il possedimento che ci crea dei doveri e dei bisogni; è l’intimità, è l’abitudine che rendono potente l’amore.

Tuttavia non abbandonai Regina: la natura agiva troppo potentemente su me perch’io potessi superarla colla forza della mia volontà. La volontà è sempre più debole dell’istinto, perchè ove nol fosse, ciascun uomo potrebbe violare impunemente la propria natura. Incominciai anzi ad amarla, conosceva che il suo cuore era retto e sincero, non ne poteva dubitare: investigai il suo passato, e non vi trovai cosa alcuna di cui dovessi soffrire ed affliggermi: un uomo qualunque, un uomo che non fosse stato vero artista, avrebbe [34] potuto essere felice con Regina. Io non lo era.

Ottenni tutto da lei. Da quel giorno ella cominciò ad amarmi, da quel giorno io sentii che il mio affetto era svanito. Lo dissimulai lungo tempo, era pietà, era gratitudine che me lo imponevano, ma essa non tardò ad avvedersi del mio abbandono, e ne fu mortalmente ferita.

— Che vuoi! mi disse ella una volta, che pretendi da me per amarmi? che posso io fare per meritarmi il tuo amore? Hai guardato nel mio passato e non vi hai veduto nulla, hai indagata la mia condotta e sono uscita illibata dalle tue investigazioni. Quale demerito ho io per essere condannata al tuo abbandono? Non sono abbastanza bella? non sono abbastanza giovine e ricca? Sei geloso? preferisci l’isolamento? Vuoi che rinunci a tutto, a’ miei abiti, a’ miei cavalli, alle mie abitudini? Vuoi che abbandoniamo questa città e ci ripariamo in un angolo di terra ignorato? che viviamo soli, sconosciuti, felici? Dimmi lo vuoi?

Io era vinto, io era commosso, io avrei fatto il sacrificio della mia vita per lei, ma non poteva amarla, non lo poteva: sentiva che nessuna donna avrebbe potuto inspirarmi ancora dell’amore; l’amore, la [35] continuazione, il culto, l’affetto di quell’ideale che portava meco nel cuore lo trovava nell’arte — la donna ne era la negazione.

Oscillammo alcun tempo tra la repulsione e l’amore, prevalse la repulsione — ci separammo.

Io abbandonai quella città sei mesi dopo, nello stesso giorno in cui ella partiva per Francia col ricco barone di Saint-Froix, colonnello di cavalleria, col quale si era sposata al mattino.

Così disgustato dell’amore altrui rientrai nell’amore di me medesimo, non perchè il mio cuore fosse incapace di collocare in una creatura simile a me un affetto saldo e durevole, ma perchè aveva compreso che nessuna di esse avrebbe potuto divider meco questo sentimento senza offenderne la purezza; perchè sapeva che quell’amore che io voleva, il mondo non me lo avrebbe mai dato, non me lo avrebbe mai potuto dare. Nell’amore dell’uomo, e più specialmente della donna, ho sempre veduto una specie d’ipocrisia, delle norme di convenzione che volevano mostrare di condurre al sentimento, e non conducevano che alla sensazione, non avevano altro scopo che la voluttà, e incominciate con tutte le apparenze di un amore ideale, di un puro [36] affetto di cuore, finivano colle basse soddisfazioni di un amore brutale, assai spesso colla sazietà, colla nausea, col disgusto che dà una passione soddisfatta. L’amore non è che un’ipocrisia — nella maggior parte degli uomini non è che l’abuso, l’applicazione falsa ed inesatta di un nome. Potrebbe chiamarsi il piacere, la voluttà, la sensazione — sarebbero le parole — ma l’amore, questa espressione di cui ci serviamo per indicare quanto abbiamo di sacro e di diletto nel mondo, per rivolgerci alla divinità, per accennare a quei legami pieni di mistero e di incanto che sembrano congiungerci all’universo; essa, la parola più dolce e più nobile del linguaggio umano, quella che inchiude l’idea del sacrificio scambievole, che è la nostra religione, la rivelazione più eloquente della nostra immortalità, non può essere adoperata per nascondere la natura ed i fini di un desiderio sì basso, per velarne la nudità, per travisarne lo scopo — l’amore è cosa dell’anima, la voluttà è cosa della materia: distinguiamo tra due nature sì differenti.

Nella stessa facilità di quelle donne che si danno senza ritegno — e quel ritegno ha sempre le sue cause nell’amor proprio, è sempre un’arte quando non è calcolo o freddezza, — che non lo dissimulano, [37] che dicono: vi domando del piacere e vi do del piacere, mi parve di scorgere non dirò una maggiore virtù, ma una maggiore arditezza della verità, una franchezza saggia e lodevole. Che differenza tra esse e le altre? Le une promettono di darsi, nulla più, e si danno — le altre promettono cose infinite, l’amore puro e ideale, tutte le smorfie che affetta il sentimento, e finiscono col darsi come le prime, nulla di meno: in quelle una sincerità che ne scema se non ne scusa i traviamenti, in queste un inganno, un artifizio volgare, od una ignoranza di sè deplorevole. Tra un uomo ed una donna che si piacciono la virtù non è in alcun luogo, se è in tal cosa che vuolsi far risiedere la virtù. Basta avere un’esperienza della vita assai lieve per apprezzare la verità di questa asserzione: quando due giovani creature di sesso diverso sono prese di affetto l’una per l’altra sanno a che cosa li deve condurre l’amore, e comprendono che dissimulano, e fingono entrambe l’ignoranza di uno scopo che pure si struggono di affrettare col desiderio.

Ecco le considerazioni che mi allontanarono per sempre dall’amore: intendo l’amore quale è ordinariamente tra gli uomini, quell’affetto che incomincia da un’apoteosi e finisce in una degradazione, le cui fila [38] sembrano partire dal cielo, e nondimeno toccano il fango. Non spero altro dalla donna, benchè sappia che l’amicizia non è che un’ombra dell’amore, e che non potè mai appagarmi soltanto di essa; benchè comprenda che non può darlo che la donna, lei sola, ancorchè puro, ancorchè deliberato per sempre all’astinenza dì quei piaceri che ella può offrire.

Ma ciò è per fermo nella natura; e come ella abbia condannato ad un fine sì triste un sentimento sì elevato e sì nobile, come si sia servita di mezzi così divini per raggiungere uno scopo sì turpe, è ciò di cui la mia anima non ha mai saputo darsi ragione, è l’enimma eterno e insolvibile del cuore umano. Non condanno la facilità con cui gli uomini corrono al piacere, ma l’astuzia con cui dissimulano di non corrervi, le illusioni di cui circondano un atto di intimità che non ne ha alcuna, e che riserbano alla gioventù inconsapevole un disinganno certo e terribile.

Hai tu avuto quattordici anni? Te ne rammenti? Ti ricordi di quel tempo quando nella donna non vedevi che l’angelo, quando nell’amore non vedevi che l’unificazione di due anime? Ed hai serbato memoria di quel giorno in cui afferrasti la realtà, in cui vedesti soccombere il tuo ideale? Oh, la natura vi ebbe la sua parte di colpa, [39] ma la donna non meno!... La donna voluttuosa, facile, meno elevata di mente, è meno atta a comprendere la bassezza e la vanità del piacere; desiderosa di darsi perchè sa darsi, perchè vi ha attitudine, perchè desidera di sottomettersi, e sa porre più che altrove in questo abbandono, quella leggierezza, quella grazia, quella docilità, quel non so che di vago e di fatuo che sa mettere sì bene in tutti i piccoli nonnulla della sua vita. Si direbbe che il loro ritegno non è che un’arte, che quelle medesime che si serbano virtuose lo fanno perciò solo, che sanno di conservare in tal modo uno degli allettamenti più energici, e di poter esercitare una seduzione più potente. Tutto ciò che vi è nella donna — le sue opere, i suo pensieri, le sue parole, i suoi atti — tutto è seduzione, benchè seduzione tacita e delicata. Oh, l’uomo è assai più puro! Nella sua franchezza, nelle sue abitudini un po’ ardite, nel suo stesso linguaggio un po’ rozzo e un po’ brutale, egli è assai più puro! Nella fanciulla si trova sempre la donna — l’angelo bisogna cercarlo nella madre.

Mio caro amico, riprese Lorenzo dopo un breve intervallo di silenzio, io mi sono disgustato assai presto delle donne; le prime prove mi hanno atterrito; non ti dirò ciò [40] che ebbi ad esperimentare di poi; aggiunsi sconforto a sconforto — mi ritrassi nella mia solitudine disperando di non poter amare che la mia arte. E forse un artista non può, non deve avere un altro amore che questo — l’amore astratto del bello, del buono, l’amore che conduce direttamente a Dio, che rinuncia alla creatura, che non si posa su cosa alcuna del mondo — tutto il resto è sogno, è illusione, è voluttà d’un istante. Se l’amore debb’essere infinito e gli uomini tutti amano cose finite, gli artisti sono i soli uomini che amano.

Dopo l’abbandono di Regina ebbi altri affetti e altri inganni; conobbi le donne uguali tutte, propense all’amore, ripugnanti perciò dall’amicizia che ne rifiuta i privilegi e i diritti, facili all’affetto, atte a colorire con quella vena di facile poesia che è in esse qualunque atto di degradazione fisica sul quale l’uomo si arresta a meditare con dolore.... Non ho serbato memoria di una donna giovine, che abbia saputo perdonare a me giovane di averle potuto offrire dell’amore e di non averle dato che dell’amicizia. Rientrai in me stesso; volli riabitare questa casa, rivedere questi luoghi che mi parlavano dell’infanzia, l’unica età della vita sulla quale noi possiamo ritornare senza piangere, e darmi [41] tutto alla mia arte, e vivere di essa e per essa.

Ma neppure qui non mi sento sereno, non mi sento felice; non si può amare l’amore per l’amore, e l’arte che ci crea un ideale così elevato, non basta a far tacere quel bisogno incessante dell’anima che ci spinge a cercarne una personificazione più o meno imperfetta negli uomini e nelle cose reali della vita.

Bisogna amare, ecco la condanna; o turpemente o nobilmente bisogna amare: per noi che ne vediamo l’oggetto nel cielo e dobbiamo cercarlo nel fango è una condanna doppiamente terribile. Io vorrei possederlo questo oggetto, ma dove mi sarà dato di rinvenirlo? dove troverò la donna diversa dalla donna? Combatto da lungo tempo col mio cuore, tento di ucciderne l’affettività, di deviarla dalla donna e di rivolgerla all’arte. Inutile sforzo? La natura prevale; e l’arte che è troppo grande, troppo conscia di sè per temere di una rivalità così poco durevole, ne seconda la legge ed i fini.

Tornato qui, trovai Adalgisa già adulta; ci eravamo separati bambini e benchè io non fossi allora che un povero fanciullo della sua fattoria, ci eravamo legati di quell’amicizia pronta e sincera che si [42] contrae facilmente in quegli anni; ora quel sentimento si è mutato dal canto suo in un amore appassionato e ardentissimo. Posso io corrispondervi? È troppo tardi, nè ella potrebbe offrirmi di più di ciò che altre m’offersero, nè vorrebbe offrirmi di meno; in lei vedrei sempre la donna, l’amante sparirebbe coll’amore.

Così dicendo la notte era caduta, e Lorenzo, prendendomi per mano, mi ritrasse dal limitare nella stanza. Passai con lui altri due giorni in cui vidi e conobbi Adalgisa, dopo di che ci separammo tristi e scorati.

Abbrevierò la narrazione di questo racconto.

Due anni dopo ebbi, da Lorenzo questa lettera:

»È assai tempo che non ho più novelle di te. Ho saputo che sei a Nizza e ti scrivo. Avrei avuto bisogno prima di scriverti. Ho attraversato molte calamità, ho subite molte prove dacchè ci siamo divisi — ho compreso spesso che se avessi potuto confidarmi a te, versarti tutto il mio cuore, mi sarei sentito sollevato. Come la vita ci sfugge, come la felicità ci sfugge! Due soli anni!... e pure quale solitudine si è fatta intorno a noi, quante care esistenze ci sono state rapite in così breve [43] spazio di tempo! Ho pensato sovente con dolore quanto debba essere triste la vecchiezza, quanto debba essere tormentoso il sopravvivere a tutti quegli esseri che si sono amati e perduti.

»Ti ricordi dei discorsi che facemmo l’ultima volta che ci siamo abbracciati? Il mio cuore combatteva allora una gran lotta, la mia virtù stava per soccombere, una sfiducia terribile si era impadronito di me. Io non credeva alla donna, io non poteva amare la donna — reputava l’amore turpe o impossibile, così soggetta come mi appariva ai bisogni irresistibili della natura, così fuso, così legato, così immedesimato con questi stessi bisogni. Nel tempo medesimo anelava a questo amore che la mia ragione ripudiava, nè subiva la prepotenza irresistibile, vi soggiaceva come alla tirannia di una passione indomabile. Strano mistero del mio cuore! Amava la donna nella sua beltà, nelle sue attrattive — l’odiava nelle sue debolezze, nella sua facilità, nella sua avidità di piacere. L’arte me ne aveva creato un tipo perfetto, io voleva concretizzare questo tipo in una creatura vivente, spiritualizzare la donna fino a trasformarla, fino a farle raggiungere la perfezione ideale di quel modello.

[44]

»Mi ricordo che tu sorridevi di questo sogno, dissimulavi a stento la tua sfiducia, mi nascondevi appena l’ilarità che ti destava questa illusione. E pure che cosa è questo lavoro assiduo che compie l’umanità da molti secoli se non una conseguenza del bisogno che essa ha di spiritualizzarsi, di sottrarsi alle leggi fisiche per crearsi delle leggi morali? Le idee confuse di civiltà, di progresso, di perfezionamento sono una derivazione di questa grande idea, di questa grande aspirazione. Ogni uomo tende a spiritualizzarsi. Perchè ci vergogniamo delle nostre debolezze, delle nostre imperfezioni, dei nostri bisogni? Perchè ci sono delle cose che ci sembrano turpi nella nostra natura?... Perchè tentiamo di nasconderle? Nella lotta di questi due grandi principii — del principio fisico e del principio morale — è riposto il segreto delle lotte umane — forse anche le oscure ragioni dell’umanità e della vita.

»Ebbene! che faceva io se non che spingermi troppo innanzi su questa via? se non che anelare con troppo ardore a quel perfezionamento ideale cui tutti gli uomini aspirano? Gli artisti sono uomini che precedono gli altri — vanno innanzi e additano il sentiero, si voltano indietro e si [45] trovano soli... questi grandi, questi infelici solitarii!...

»Ti ricorderai anche di Adalgisa. Io non poteva accettarne l’amore, corrispondervi; le ragioni che ti ho espresso ora mi allontanavano anche da lei, me ne allontanavano ripugnante, afflitto, corrucciato di me stesso. Perchè io avrei voluto amarla, poterla amare, rendere a lei quelle gioie, quella felicità, quella luce che essa voleva gettare su tutta la mia vita. Non lo poteva. Tu mi lasciasti in quel tempo — erano gli ultimi giorni delle mie lotte e delle mie esitazioni. Adalgisa si ammalò poco dopo la tua partenza — la sua etisia raggiunse uno sviluppo impossibile ad arrestarsi — non si riebbe più — io la perdetti quando incominciava a tenermi cara la sua vita e il suo amore.

»Io ti parlerò di questo amore come di una malattia della mia anima, come di un fenomeno inesplicabile della mia natura. Non vi ha dubbio che gli artisti sieno uomini infermi, creature malate, esseri incompleti, i quali perciò appunto dovranno sempre sottrarsi alle norme comuni della vita. Ciò che essi creano è effetto della loro imperfezione, della loro infermità; come alcune specie di bache, di frutti, di nodi bizzarri, sono un prodotto [46] della malattia delle piante, come dalla corteccia incisa di alcuni alberi stilla la gomma. Io che l’aveva tratta a morire colla mia indifferenza, che l’aveva resa infelice col mio rifiuto, io doveva amarla quando già la vita avea incominciato a sfuggirle, ad adorarla dopo che l’aveva perduta. Non so se tu abbia provata la più spaventosa tortura che possa subire il cuore umano — l’impossibilità d’amare le persone che ci amano e che reputiamo degne di amare. Non vi è tormento che possa adeguarsi a questo: basta averlo provato una volta perchè si comprenda tutta l’impotenza della nostra volontà, perchè rovini tutto l’edificio della nostra fede, perchè una tenebra immensa si distenda su tutta la nostra vita. L’amore è inesorabile; è in noi, ma è fuori di noi; non possiamo imporlo a noi stessi, non possiamo lasciarcelo imporre.

»Tutte le persone dotate di qualche virtù e di qualche avvenenza hanno assistito a questa rovina che facevano intorno a sè stessi, hanno suscitato delle passioni che non potevano appagare, consumato delle vite che non potevano proteggere col loro amore. Nelle stragi che l’amore mena nel mondo, alcuni pochi soccombono alla felicità dell’affetto contraccambiato, [47] molti al dolore dell’affetto non corrisposto, moltissimi — e sono infinitamente i più miseri — allo strazio di non poter amare.

»Io ho provato questo strazio in tutta la sua potenza. Vedeva deperire la bellezza di Adalgisa, avvizzirsi la sua fede, affievolirsi e consumarsi la sua vita, e non poteva soccorrerla. Io assisteva a questa distruzione, lenta, penosa, inesorabile, senza poterla impedire. Chiedeva indarno al mio cuore ciò ch’egli non poteva darmi, ciò che io non poteva esigere da lui. Perchè l’amore è una gran fede, è un gran vero — non lo si finge, non lo si smentisce. Esso non proviene da noi, ci viene non sappiamo d’onde, lo subiamo — perciò non lo possiamo mentire perchè non lo conosciamo che dopo averlo provato — o meglio ancora provandolo.

»Te partito, Adalgisa si pose a letto, la pietà mi trattenne presso di lei fino al giorno della sua morte. Fu in quel frattempo che il gelo del mio cuore si sciolse, che io incominciai ad amarla e a confortarla di questo convincimento — non visse felice, ma morì felice. Perchè ho incominciato ad amarla in quei giorni? È una domanda che mi sono rivolto sovente io stesso senza potervi rispondere. Di mano in mano [48] che la sua malattia affievoliva la sua vitalità, prostrava le sue forze e le sue passioni, la sua anima acquistava una nuova potenza — di mano in mano che si restringevano i limiti della sua vita fisica, si dilatavano, si estendevano quelli della sua vita morale. Io l’amava forse perchè vedeva in lei sparire la donna e formarsi l’angelo, pur rimanendo angelo e donna ad un tempo — perchè la vedeva librata tra il cielo ed il mondo, come avesse voluto additarmi il cielo senza togliermi alle gioje più miti della terra.

»Non ti parlerò dei giorni che trascorsi presso di lei, al suo capezzale — giorni pieni di tristezza e di grandi gioje ad un tempo, di esitanze, di sogni, di illusioni, di subiti sconforti — cari e mesti giorni che io non potrò ricordare mai senza piangere.

»Adalgisa non prevedeva, non credeva vicino il suo fine: mi parlava dell’avvenire, di noi, del suo amore; formava progetti di felicità per un tempo lontano — la sua anima, simile alla fiamma che si ravviva un istante prima di spegnersi, gettava, già vicina a dividersi da lei, una più gran luce sulle gioie immaginarie del suo avvenire. Soventi ella intravedeva il vero, ricadeva ne’ suoi sconforti, presentiva l’abbandono della vita. Allora rivolava al passato, evocava, numerava, [49] interrogava le gioje in quell’età, più spesso accarezzate che godute, più spesso sognate che ottenute; mi parlava dell’infanzia, di quegli anni che avevamo trascorsi assieme, quando la nostra affettività era ancora una virtù che spandevamo su tutti, che dividevamo con tutti; quando gli affetti, così dispersi, non si erano ancora riuniti nel cuore per rivolgerli ad una sola creatura. L’amore, diceva ella, era stato allora una grande espansione, ora non era che un grande egoismo.

»La malattia aveva come modificate le sue sembianze, aveva dato al suo volto qualche cosa di sì pallido, di sì mobile, di sì trasparente, che la sua natura appariva trasfigurata, spiritualizzata, mutata essenzialmente da quella di prima. La sua vitalità era affluita tutta allo sguardo; pareva intravedesse sempre qualche cosa al di là degli oggetti che la circondavano — guardava come si guarda spesso, senza vedere. Le sue mani si erano come affilate, erano divenute sì piccole, sì leggiere, sì bianche, che nello stringerle vi sentivate la mancanza della vita, e ricordavate quelle mani che vi accarezzavano fanciullo, vi avvedevate che esse non dovevano più toccare alcuna cosa della terra...... Oh le mani di un morente! Chi non ha strette una volta [50] quelle mani? Chi non ha compreso il terribile linguaggio di quel contatto? Sì le mani hanno un linguaggio speciale, un’espressione a sè, un’eloquenza misteriosa che ogni uomo non può non intendere. Son esse che accarezzano le teste dei biondi fanciulli, che asciugano le lagrime degli infelici, che rivelano i primi tumulti della passione, che esprimono la pietà, la tenerezza, che infondono i conforti, che vi toccano, che vi stringono, che vi abbracciano l’ultima volta prima di morire. Le mani sono il linguaggio del corpo, come il sentimento è il linguaggio dell’anima.

»Non è senza ragione che le superstizioni umane hanno attribuito un pregio sì grande alla verginità della donna. Non saprei come provare questa asserzione, come giustificare questa fede che mi ha inspirata la vista di Adalgisa; ma egli è ben certo che se vi sono nella nostra natura due elementi che lottano per dominarsi — l’elemento fisico e l’elemento spirituale — e se la nostra perfezione, la nostra supremazia, la nostra grandezza sono riposte nella prevalenza di quest’ultimo, ella è una grande rinuncia quella che vien fatta per esso alla soddisfazione dei sensi più viva e più irresistibile. Si può deplorare questa rinuncia, non si può non ammirarla — la [51] verginità eserciterà sempre uno dei più grandi prestigi sugli uomini, perchè rivela ad un’ora la casta verginità del cuore e della mente.

»Vi sono delle creature che sentono il peso della materia, la sua tirannia, l’impero che esercita sullo spirito: alcuni la subiscono, alcuni vi si ribellano. Quei martiri delle leggende cristiane che, spinti da un ascetismo religioso, si maceravano il corpo coi digiuni e colle battiture, non potevano essere che uomini straordinarii: combattevano ad oltranza quella lotta che noi combattiamo con armi più facili, con tregue lunghe, con viltà più frequenti, e nelle quali preferiamo spesso il soccombere al resistere forti ed infaticati.

»Questa vittoria dello spirito sulla materia mi appariva piena, intera in Adalgisa — è in ciò che è riposto il segreto di quel fascino che la fede, che il genio, che il culto di un gran principio morale esercitano sopra di noi; il rispetto che c’inspira la vecchiaja, l’interesse che ci destano le persone deboli o inferme — simile a quelle lampade funerarie che gli antichi collocavano presso le tombe, la cui fiammella acquistava sempre più maggior luce, quanto più s’assottigliava il vaso d’alabastro che la conteneva — l’anima della fanciulla traspariva, si rivelava, [52] attraverso le forme vaghissime del suo corpo che la consunzione svigoriva senza alterare.

»Essa era anzi più bella. Che ti dirò delle contraddizioni inesplicabili della mia natura?... Io me ne innamorai in quei giorni; e quanto più ella si andava approssimando al suo fine, quanto più io acquistava la certezza del suo abbandono, tanto più si rafforzava in me questo affetto. Come raccontarti tutte le lotte del mio cuore? descriverti, enumerarti le mie sensazioni? In poco tempo il mio amore raggiunse tutta la sua pienezza, assunse tutta la forza d’una passione indomabile. Sola, mia, soffrente, purificata dalla morte — così e non altrimenti io poteva amare una donna. Una donna! Non era una creatura umana che io amava in lei, era uno spirito concretizzato, personificato in un essere vivo, racchiuso in un velo vaghissimo, delicato, trasparente, che appena lasciava indovinare l’essenza di cui era composto.

»Ma a che dirti tutto? come spiegarti il carattere della mia passione? Spesso mi atterriva il pensiero di perderla, più spesso ancora il pensiero di ricuperarla. La vita le avrebbe ridonato la forza, la salute, i desiderii; io avrei trovato in lei ciò che aveva trovato in Regina, ciò che si trova [53] in tutte le donne, la donna; noi saremmo sopravvissuti al nostro amore... Perdendola, io raffermava invece per sempre la mia fede, conservava per sempre le mie illusioni; la religione dell’amore avrebbe potuto pretendere da me un culto sincero ed eterno. Incauti coloro che piangono la perdita di una donna amata! Non vi è che la morte che possa purificare l’amore, che possa santificarlo, eternarlo — essa ne suggella la fede. Quando essa ha diviso due esseri che si amano, colui che è sopravvissuto può illudersi sulla durata che quell’affetto avrebbe avuto, se vivo; ha una tomba su cui piangere, e può costruirsi una fede su cui riposare. Nessuna gioja della terra è dolce come quelle lagrime e come quella fede! Ma ciò che è orribile è sopravvivere alle proprie affezioni, vederle vacillare, cadere, finire, irridire a sè stessi, posarsi sopra altre creature. Quanti esseri ci circondano che avevamo amati, che avevamo fusi colla nostra esistenza, coi quali avevamo sfidato la mutabilità dei tempi e della fortuna... e che adesso sono più nulla! Vivere tra tali creature, vederle vive e felici, e portarne il lutto, è come vivere in un mondo che ha cessato di appartenerci, è come presentire la morte co’ suoi dolori, co’ suoi abbandoni, co’ suoi rimpianti, senza averne nè la dimenticanza, nè la quiete.

[54]

»Ma a che farti conoscere tutti i dettagli dolorosi del mio racconto? Adalgisa morì; e con quella morte cessò in me quell’indifferenza, quell’avversione all’amore, quel bisogno di raccogliermi in me stesso che mi aveva chiuso fino allora tutte le sorgenti della felicità e del piacere. Quell’affetto che mi s’era formato nel cuore durante la sua malattia, si tramutò dopo che l’ebbi perduta, in una passione che mi divorava la vita, senza che potessi spegnerla, che mi dominava senza che potessi combatterla. L’aveva dimenticata viva, l’aveva amata morente, l’adorava già morta. In ciò io era conseguente a me stesso, a’ miei principii, alle mie idee: il mio amore era logico come lo era stata la mia indifferenza — procedeva dalle stesse cause, si riposava sulle medesime convinzioni. Un ostacolo mi aveva allontanato fino allora dalla donna — la sensualità della bellezza: ora questo ostacolo era sparito, la bellezza di Adalgisa non era più che un riflesso della bellezza intatta ed eterna — in quelle forme pure e perfette io vedeva personificato quell’ideale che l’arte, che il vero, che il bello avevano come delineato nella mia fantasia. Gli uomini tendono a personificare tutte le loro sensazioni, tutte le concezioni della loro mente — la vasta idealità [55] umana si riduce tutta alla creazione di alcuni tipi vaghi e indecisi, di cui cerchiamo indarno quaggiù una personificazione vivente. Dio non si è rivelato a noi: egli non ha tanto creato gli uomini, quanto gli uomini hanno creato lui stesso — l’idea di Dio non è che una personificazione dell’idea del bello eterno, e del buono eterno — le anime elevate non hanno osato circoscrivere questa bontà e questa bellezza in una forma, le anime volgari sono discese fino all’umanazione.

»Se tu avessi visto Adalgisa, avresti potuto comprendere quanto ella si avvicinasse a questo ideale. Non so dirti quanto ella fosse bella, nè quanto il mio ideale fosse elevato! D’altronde che cosa è la bellezza? Essa non può essere il risultato dell’armonia di alcune linee, perchè queste stesse linee disposte diversamente possono dare diverse specie di bellezze — vi è non una legge in ciò; non vi è una bellezza assoluta. Possiamo analizzare il volto umano, descriverlo in tutte le sue parti, ammirare l’armonia dei loro rapporti — non basta — vi è ancora qualche cosa che è fuori di questa legge, che sfugge a questa analisi, che costituisce unicamente il bello che noi ammiriamo. Egli è che ciascun uomo, personificando le proprie idee, si è formato [56] un tipo di bellezza, secondo il quale esamina e giudica delle forme degli oggetti e delle creature che ci circondano. Ciò è quanto noi chiamiamo il gusto. Le leggi della bellezza fisica sono riposte in una legge della bellezza morale. L’identità della natura in ciascun uomo rende queste leggi pressochè simili in tutti, quindi pressochè uno il tipo della bellezza umana, ma se noi potessimo uscire un istante fuori di noi medesimi, distruggere e mutare questa legge vedremmo che il bello ci apparirebbe deforme, e il deforme bello, che la bellezza è tutta immaginaria, tutta convenzionale, tutta subordinata a questo principio. Ecco perchè io non tenterò di delinearti l’immagine di Adalgisa — converrebbe che tu discendessi nella mia anima per rintracciarvela.

»Non ho mai preso ad investigare che cosa sia l’amore, quali i suoi limiti nel cuore degli altri uomini. Perciò appunto che ti ho detto ora, io non ignorava che nel bello si ama inconsciamente il buono, che nel deforme si odia inconsciamente ciò che è cattivo, ma le ragioni di quest’odio e di questo amore mi rimasero sempre ignorate — si poteva aver coscienza di questi due estremi morali, ammirarne queste personificazioni diverse, senza nè amarle, nè odiarle — il segreto dell’amore, che è [57] ad un tempo il segreto della vita universale, rimarrà sempre inviolato dagli uomini.

»Oh! dirti le ore di ebbrezza che io trascorsi al suo fianco, i deliri di quegli abbandoni!... Quel cadavere che mi stava d’innanzi ricongiungeva i fili spezzati della mia esistenza, mi rimetteva in pace coll’umanità, con me stesso; riannodava i legami che mi avvincevano all’arte e alla vita. Quante anime non sapranno comprendere la natura di questa passione, giustificare la sua origine, la sua essenza, i suoi fini! Non è vero che le donne sappiano amare, sanno piacere, godere. Spogliatele di quelle attrattive del sesso che vi vedete mascherate dal sentimento — e non vi è più nulla. Ma in Adalgisa queste attrattive erano mute, distrutte — tutto ciò che vi era di ripugnante era sparito, tutto ciò che vi era di dolce era rimasto. Che importava a me che ella non vivesse? Io non aveva mai voluto chiederle del piacere. Nella ricerca affannosa del bello, io non aveva cercato mai che il bello, ancorchè passeggiero, ancorchè inanimato. Fui sempre casto di quella castità che è propria della robustezza; nè io aveva cercato nella personificazione dei mio ideale altri attributi che quelli elevatissimi del mio ideale medesimo. E poi vi è qualche cosa di morto [58] in natura? vi è qualche cosa di inanimato intorno a noi, cui non possiamo infondere una parte della nostra anima? Ho sempre sorriso di questa specie di avversione che gli uomini hanno per tutto ciò che non vive: mi sono sempre sentito nel cuore un’esuberanza di spirito sufficiente a infondere la vita a tutti quegli esseri inerti che mi stavano dintorno. Le grandi anime soffrono in mezzo a ciò che si agita e vive; prediligono la solitudine dove possono espandere la propria vitalità.

»Non vissi con lei che due giorni — la terra riebbe Adalgisa — io assistetti senza lacrime alla sua sepoltura. E perchè avrei dovuto piangerla? Non mi bastava la memoria? Coloro che piangono ciò che muore rinnegano la propria fede, la durabilità dei proprii affetti, la coscienza del proprio destino.

»Da quel giorno le mie lotte erano finite, io mi sentiva riconciliato coll’esistenza. Mi ridonai all’amore della mia arte — non era che un solo amore, uno stesso amore — non vissi più che di quello.

»La musica fra tutte le arti è la più divina perchè la più indeterminata. Concretizzate le idee nelle parole, la luce nella tela, le forme nel sasso, ma non potete concretizzare il suono — il regno delle note [59] è infinito come il regno delle idee — più ancora, va oltre le idee, ve ne crea di quelle che non potete determinare, di cui non sapete darvi ragione. Strana e ridicola cosa! Gli uomini hanno voluto circoscrivere la potenza di questo linguaggio, il solo che sia veramente universale; l’hanno collegato colla parola la quale non esprime che cose determinate, — connubio mostruoso! — hanno detto: queste note esprimeranno il dolore, queste il piacere, quelle la sorpresa, e via via; hanno composta la sintassi delle note — hanno immiserito, circoscritto, rinnegato questo linguaggio che ci parlava di un mondo lontano, che ci sollevava sull’ordine delle idee comuni, che ci trasportava oltre il dominio dei sensi; che appunto era grande, perchè era impossibile sottoporlo a leggi fisse, trattenerlo dentro limiti fissi, perchè era inesauribile, perchè era indeterminato.

»Queste parole ti lascieranno indovinare quali sieno le mie idee in fatto di musica, quali i tentativi che io faccio per redimerla da queste leggi di convenzione.

»Scrivimi. Dopo la perdita di Adalgisa, io vivo da solo, in questa città. Vorrei farti comprendere quali sieno i rapporti misteriosi che esistono tra la di lei memoria e la mia arte, e come questa attinga da quella, [60] e quella si avvivi nella fiamma di questa, e formino un tutto solo ed armonico — ma ciò mi tornerebbe impossibile.

«Rimarrai tu costì lungo tempo? Ti scriverò altra volta.»

Ma non ebbi da lui altre lettere.

Passarono due anni da quell’epoca, nè io aveva più ricevuta notizia alcuna di Lorenzo, e quasi me n’era dimenticato, allorchè n’ebbi da un amico le tristi novelle che mi accingo a raccontare; anzi trascriverò qui quel brano della sua lettera, che vi si riferisce:

«È da lui stesso che io ho saputo che tu non ignori le sue follie passate, e quella sua passione d’amore così strana, così ideale, e così incomprensibile. Ho anzi ragione a credere che tu abbia penetrato meglio e più profondamente di me nelle segrete oscurità della sua anima, e che la natura della sua follia ti sia apparsa più evidente e più chiara. Credo averla compresa io pure, e ciò mi spiega in qualche guisa la seconda e la più grave delle sue aberrazioni. Se egli non ti ha scritto più dopo la’ tua partenza da ***, ignori senza dubbio che egli si è dimenticato di Adalgisa, e che un amore non meno appassionato, non meno esigente, ma non meno inesplicabile si è sostituito a quel primo.

[61]

»Era naturale che egli se ne dimenticasse, e che quell’affetto così triste, così spento, così solitario si spegnesse nel suo cuore per dar luogo ad una passione più viva e più reale benchè ancora più assurda. Tu meraviglierai dell’oggetto di questa sua seconda affezione.

»Io credo che tutta l’infermità della sua anima e della sua intelligenza si riducesse a ciò: che egli voleva personificare in un tipo di bellezza sensibile quel tipo astratto e ideale che gli aveva creato la sua arte. La natura stessa lo conduceva a cercare questa personificazione nella donna; la purità della sua anima, la casta religione di questo ideale lo costringevano a volerne escluse quelle passioni fisiche che la contaminavano. Perciò egli non aveva amata Adalgisa che morta, l’aveva amata solamente in quegli istanti, in cui senza avere ancora perduto nulla della sua bellezza, si era già spogliata di tutte le sue passioni. Seguendo questo ordine stesso di idee, non allontanandoci dalle leggi e dalla natura della sua follia, comprenderai agevolmente come egli non potesse rimanere fedele a questa affezione giacchè egli aveva d’uopo di vedere, di ammirare questa personificazione più o meno imperfetta del suo ideale. Non è a dirsi se egli soffrisse di questa [62] dimenticanza che gli imponeva la sua stessa natura, la sua arte stessa; egli aveva creduto che quell’affetto sarebbe durato eterno, e lo sentiva svanire, spegnersi, dileguarsi miseramente come tutti gli affetti terreni; sentiva riformarsi nel cuore quel vuoto che egli aveva riempiuto un istante, ma che ora non poteva sperare più di riempire.

»In quell’intervallo di lotte, in quel periodo di triste scoraggiamento si disgustò anche della sua arte, alla quale credeva, e non senza ragione, dovere unicamente la sua infelicità. La musica, diceva egli, è relativamente alle nostre facoltà la più imperfetta, e la più incompleta di tutte le arti. Noi non sappiamo se ci andiamo avvicinando od allontanando dalla sua perfezione — non lo potremo mai indovinare — non le potremo mai assegnare nè un limite, nè una legge, nemmeno una via sicura, tanto ella si allontana da tutto ciò che è sensibile, da tutto ciò che è reale. Non è nemmeno possibile una definizione, ella sfugge ai sensi, al raziocinio, a tutto: si è camminato finora sopra delle ipotesi, si sono stabilite delle norme elementari, si sono creati dei sistemi, dei generi, delle leggi di convenzione, ma nessuno ha ancora potuto comprendere che cosa ella sia, d’onde si è partiti, e fin dove [63] si potrà giungere. I veri artisti hanno sentito tutto il tormento di questa ignoranza e di questa impotenza, hanno compreso quanto fosse grande il contrasto che la vaga idealità di quest’arte formava coll’arido realismo, con cui la natura li aveva condannati a lottare.

»Disperando di trovar pace qui, egli prese a viaggiare; e fu a Firenze che vide la Venere dei Medici, e che lo stesso sentimento che lo aveva fatto invogliare di una fanciulla morta, gli destò nell’anima una passione ancora più ardente, ancora più inesplicabile, per quel tipo perfettissimo della bellezza femminile. Lorenzo passò da quell’amore a questo colle stesse esitanze, colle stesse indecisioni di coloro che si sciolgono da un affetto reale. E con questa nuova passione non fece che crearsi nuove origini di sofferenze. Era naturale che egli sì vigoroso, sì ardente, dotato di un’immaginazione così viva e così feconda, non potesse appagarsi di un amore così sterile e così solitario. Egli aveva voluto lottare colla sua natura, ma indarno.

»Fu anzi quella medesima esuberanza di vitalità che egli si sforzava di trattenere, di accumulare in sè stesso, che guastò in qualche modo il suo organismo, e finì collo spegnere in parte la sua ragione. Il [64] suo cuore, la sua mente, le sue aspirazioni combattevano una lotta perenne coi bisogni della sua vita, colle esigenze aride, materiali, inesorabili della natura. Egli non voleva soccombere anche a prezzo della sua felicità; non voleva concedere nulla al realismo dei sensi e delle passioni.

«Se tu verrai qui ti racconterò a voce la storia di questo suo secondo amore. I dettagli sono molti e strazianti, nè mi regge l’animo di evocarli e di scriverli.»

Tale era il brano di quella lettera che si riferiva a Lorenzo.

Io accorcio, per quanto mi è possibile, la mia narrazione.

L’analisi di questa dolorosa infermità della sua mente — noi chiamiamo infermità di mente tutto ciò che si allontana dalle sue leggi comuni — potrebbe fornire argomento a molti volumi, e pochi saprebbero entrare nello spirito vero di questo esame — gli artisti forse, e non tutti. Questa specie di anatomia di un’anima non potrebbe offrire interesse che per coloro i quali furono dotati di una mente superiore, per quei pochi che hanno molto amato o molto sofferto, per quegli eletti, cui l’idea del bello si è mostrata per altre vie e per altre immagini che non soglia mostrarsi alle masse.

[65]

Lorenzo Alviati ebbe natura e passioni e genio eccezionali. Le sue opere, non note che a pochi amici, furono forse di quelle grandi aberrazioni, di quei grandi errori, di quegli slanci giganteschi, di quelle prodigiose antiveggenze che precedettero in ogni tempo le scoperte dei più grandi veri scentifici e filosofici. Fu un uomo fuori de’ suoi tempi — oserei quasi dire che fu un’anima fuori della sua natura, tanto egli seppe combatterla: ancorchè ne uscisse vinto, e dominarla così miseramente.

È noto come quella Venere destasse passioni d’amore violentissime. Lorenzo tradì, suo malgrado, il suo segreto, — il segreto di questo priapismo singolare del genio — e gli fu impedito di rivederla. Rimpatriato, si ammalò di malinconia, e la sua ragione incominciò ad alterarsi nell’isolamento che egli creava intorno a sè stesso. Tutta quell’affettività, e assieme tutto quel fuoco represso di gioventù che non aveva potuto versare in nessun cuore, si raccolse e si riversò tutto in sè medesimo. Come spiegarlo? Egli incominciò a non trovare più altra compiacenza che con sè stesso, altro oggetto degno di amore che sè stesso, altra rivelazione del bello che la sua persona. In una parola, la sua ragione ne andò interamente sconvolta — egli finì coll’essere preso d’amore per sè medesimo. Io rifuggo dal descrivere i dettagli deplorevoli di questa follia: ciascuno li potrà agevolmente immaginare.

[66]

Il mio amico non lasciò scritte che poche opere, le quali per quanto io credo, andarono smarrite. Io conservo tuttora un suo manoscritto contenente alcune idee speciosissime sul ritmo, e uno schizzo di progetto relativo all’abolizione del melodramma. La sua musica — contrariamente a ciò che si poteva supporre — era dolce, semplice, appassionata, estremamente melodica. Coloro che l’hanno udita hanno serbato memoria per lungo tempo di quel fascino inesplicabile che esercitavano le sue melodie. Mi è pur rimasta una sua memoria circa quel barbaro sistema di finali fragorosi e convenzionali, da cui nessuno ha finora saputo sciogliersi, e che io ho in animo di pubblicare. Sarà l’ultimo omaggio che io renderò alla memoria di un amico affettuoso, e di un genio sventuratissimo.

Lorenzo Alviati, morì nel manicomio di Alessandria l’11 giugno 1863.

[67]

RICCARDO WAITZEN

Lorenzo. E voi lo credete?

Il Magistrato. No, io non ho fede alcuna negli spiriti — intesi però a dire che essi esercitano delle strane influenze sugli uomini, e questa fede antica quanto l’umanità non può essere avversata ciecamente, nè distrutta ad un tratto.

(A Ghost in Comedy).

Che cosa è l’immaginazione? Chi ne definisce le facoltà? Dove rintraccieremo noi quella linea che separa l’immaginario dal vero? E nel mondo dello spirito, nelle sue vaste concezioni, esiste qualche cosa che noi possiamo chiamare assolutamente reale, od assolutamente fantastico? O piuttosto non è egli tutto fantastico nello spirito? Come nulla vi ha di individuato, di isolato, [68] nell’immensità delle masse che compongono l’universo, ma tutto si riunisce e si sfuma per mezzo delle piccole masse intermedie, non potrebbe essere che l’ideale ed il realismo si congiungessero tra di loro per certe leggi che a noi non è dato di conoscere, per certo mistero che a noi non è concesso di afferrare; e che gli uomini non facessero che definire con queste due parole i due punti estremi di questa linea, quali sono il mondo sensibile ed il mondo immaginario? Qualunque sia quel vero che a noi non è dato di percepire, egli è però ben certo che dei grandi legami esistono tra di loro. La loro conciliazione secondo la natura umana, ha formato la lotta di tutti i tempi, come forma la lotta dell’oggi: l’umanità tende ad equilibrarsi tra queste due grandi attrazioni, come quella che si sente dominata da entrambe, e non ignora costituirsi dalla loro azione il segreto delle sue lotte e della sua vita.

La letteratura moderna, conscia di questa verità, si è rivolta alla soluzione di un grande quesito: «idealizzare il reale»; fondere assieme queste due potenze, costringere l’immaginazione, l’idea a soffermarsi sulla realtà, ad anatomizzarla, a rivestirla de’ suoi colori, delle sue forme, delle sue seduzioni divine. Quella grande letteratura, che è la recente letteratura francese: Karr, Vittor Ugo, Girardin, e più di tutti Michelet co’ suoi libri divini dell’amore [69] e della donna, hanno dimostrata possibile questa conciliazione, indirizzandola allo scopo dell’umana felicità. Forse la letteratura avvenire non mirerà più ad altro fine che a questo: essa arresterà lo spirito degli uomini sempre rivolto all’ideale e al fantastico, per trattenerlo sui campi della realtà, ove noi dobbiamo combattere, qui e non altrove, vogliosi o non volenti, la lotta secolare della vita.


Ma la scienza ha pure rialzato in questi ultimi tempi un lembo della cortina misteriosa. Mesmer colla scoperta del magnetismo sembrò aver fatto un passo gigantesco su questa via. I primi fenomeni di quella scienza, arcani, oscuri, confusi, perciò accolti con quella superstiziosa credulità che affascina tutti gli uomini all’idea dell’incomprensibile e dello ignoto, sembrarono aver afferrato le prime fila per districare tutto quanto il segreto, fino allora inviolato, della natura umana: — la fusione delle anime, la trasmissione del pensiero, la chiaroveggenza, l’intuizione, l’unificazione di due, di più individualità; furono altrettante scoperte che parvero assicurarci la conquista di verità prodigiose e infinite.

Tuttavia non si tardò a riconoscere che tutto era fittizio in questa scienza, e che le prime basi gettate con tanta apparente solidità, non bastavano a sostenere quell’edificio [70] colossale e gigantesco che si voleva innalzare sopra di esse: toltine i fenomeni materiali, tutto si è arrestato, tutto è ricaduto nell’ignoto; — l’ipnotismo ci ha dimostrato che gli stessi effetti si ottenevano colla semplice fissazione di un oggetto luminoso; lo spiritualismo rimaneva dunque escluso, e i fenomeni del Mesmer ricadevano nel dominio della materia. — Perocchè chi ha mai potuto definire le proprietà degli spiriti, e i rapporti che essi hanno tra di loro? Che cosa è il sogno, il sonnambulismo, il presagio, l’astrazione, il pensiero e più di tutto l’incubo? I sensi — ecco i limiti estremi delle nostre facoltà; nulla di positivo, nulla di assoluto fuori di essi — ogni altra cosa è immaginaria e fantastica; essa appartiene a un’altra sfera di esseri, sulla cui natura, sul cui fine, sulle cui facoltà, nulla ci è dato di comprendere e di asserire con sicurezza.


Ciò non di meno, una vaga, una poetica illusione è venuta oggi a mettere in rapporto il mondo fisico col mondo spirituale, il mondo finito col vivente: intendo parlare dello spiritismo, questa applicazione singolare della scienza, per la quale uno spirito compiacente discende a parlare con voi un linguaggio di convenzione immedesimandosi in un tavolo, in una sedia, in un arnese qualunque della vostra camera: [71] ed ecco che il magnetismo si è collocato come interprete, come intermedio tra voi e il mondo spirituale — perocchè come avrebbe potuto uno spirito rivelarsi senza il concorso di un oggetto sensibile?


Io vorrei conoscere se coloro i quali, mercè questo mezzo, continuano a convivere in ispirito coi loro cari, hanno la fede assoluta nella realtà di questa convivenza. Se essi credono, il fenomeno esiste. Noi non possiamo sorridere di questa credenza: proviamone l’assurdo, proviamone del paro la verità se ci è possibile. Bensì ciascuno di noi ha sentito in sè stesso, in molte circostanze della vita, qualche cosa che gli parlava di altri esseri, o sofferenti o lontani, o già morti alla nostra esistenza di un giorno. Ditemi, non avete voi perduto qualcuno dei vostri diletti? e non ne avete spesso udito ancora la voce e i consigli? non li avete più riveduti nei vostri sogni, nelle vostre veglie affaticate e affannose? non li avete sentiti come discendere, pesare sopra di voi, immedesimarsi in voi stessi, congiungere alla vostra la loro vita? Chi vi dice che mentre vi si affaccia un’immagine nel sogno, quell’immagine stessa non sia lì viva, palpitante, curvata sopra di voi o assisa presso il vostro guanciale? E chi vi dice ancora che voi sognate? Che cosa è il sogno se non che un’esistenza piena, colma, smisurata, [72] al cui confronto l’esistenza della veglia, non è che la vita monca e impotente della pietra?.... Veglia, sonno.... parole! Io non vi domanderò quali fatti appartengano al mondo reale e quali a quello della immaginazione, non vi domanderò ancora quale sia quella linea che separa questi due mondi — negatemi che i fenomeni esistano.

È assai tempo che io conobbi nell’esercito due giovani ufficiali, due gemelli: la natura li aveva fatti ad uno stampo; nessuna distinzione fra di loro — le stesse fattezze, lo stesso colorito, lo stesso suono di voce — essi si amavano di tutta la tenerezza fraterna, e forse alla loro nascita la natura, ignara del concepimento di due esseri, trovatasi così alle strette, poichè la cosa non ammetteva indugio, aveva diviso fra di loro quel soffio della vita, che aveva predestinato inconsciamente ad un solo. Non ho conservato memoria di avvenimenti più singolari di quelli a cui dava luogo la loro prodigiosa somiglianza.

Uno di essi, Giulio, era un abile giocatore di bigliardo: l’altro, Luciano, non era che un giocatore assai mediocre. Spesso i loro compagni prima di accingersi al giuoco con uno di essi (era impossibile farlo con entrambi senza che ne derivasse una strana confusione) gli domandavano:

— Sei tu Giulio o Luciano? noi confidiamo sulla tua parola.

[73]

— Luciano, sul mio onore.

Ed ecco che la partita s’impegnava colla certezza di uscirne vincitori, ma ad un dato momento, Luciano scivolava nella sala, subentrava non visto il fratello, e la partita era perduta.

Spesso ancora nelle riviste del reggimento, uno di essi si assentava per turno, sicuro che l’altro poteva supplirlo senza pericolo di essere scoperti. Ed eccone uno sfilare grave e impettito d’innanzi al colonnello nella prima compagnia cui appartiene, e appena uscitogli di vista, portarsi alla coda del reggimento e ripassare di nuovo alla testa della compagnia dell’assente. Ma un giorno il colonnello insospettito lo fa uscire dalle file, lo trattiene presso di sè, ed ecco che lo strattagemma è scoperto e punito.

Come è costume di soldato, essere chiuso agli affetti duraturi e gentili, e aperto solamente alle piccole passioni di un giorno, essi avevano delle amanti delle quali si dividevano i favori senza che le tradite potessero avvedersi dell’inganno. La loro vita rimaneva così come moltiplicata, e la loro natura porgeva ad essi il privilegio di sensazioni sempre rinnovate e sempre recenti.

Spesso avveniva che una di loro gli dicesse:

«Amor mio io non ti riconosco più questa sera, tu mi sei tutto mutato: è forse ciò [74] che tu mi promettevi ieri l’altro? un contegno più delicato, più rispettoso, più calmo?.... ecco le tue promesse, ecco i tuoi giuramenti svaniti.....»

«Non mi badare, o fanciulla, le mie preoccupazioni del giorno sono sì gravi che io ho tutto dimenticato, e poi il mio amore è sì veemente, sì imperioso, sì cieco.... ma tu che lo disconosci, oh! tu mi ami sì poco.....»

Certo quella mente immaginosa di Shakespeare, nell’ideare la sua commedia degli equivoci, non avrebbe potuto creare delle combinazioni più singolari e più ardite. Ma la vita dei due giovani era predestinata ad un fine prematuro e inatteso. Luciano cadde colpito da una palla austriaca nella giornata di S. Martino: Giulio che gli sopravisse divenne malinconico e pensieroso, sentì che gli era venuta a mancare come una metà di sè stesso, abbandonò la carriera militare, e essendosi ritirato a vivere in una piccola casa di campagna sul Canavese, vi morì di patéma un anno dopo.

Alcuni mesi prima della sua morte io mi recai a visitarlo, e mi trattenni alcuni giorni presso di lui. Lo trovai infermo e prostrato, affetto da quell’etisia del cuore che precede nelle nature soffrenti e sensibili l’etisia fisica; ma la sua anima aveva acquistata tuttavia una potente effettività, una forza di astrazione straordinaria. Egli [75] mi assicurava che era felice, che aveva ogni giorno dei lunghi ed affettuosi colloquii con suo fratello, che egli era presente ad ogni istante, che in quelle sei ore che egli trascorreva ogni giorno rinchiuso nella sua camera ne evocava lo spirito col solo atto della volizione, e si abbandonava con lui alle dolci confidenze, alle piene espansioni del loro affetto, alle costanti e profonde investigazioni del loro destino.

Spesso io sorrideva della sua fede ed egli mostrava di compiangere la mia incredulità, e diceva con tutto lo slancio d’un desiderio a stento represso: «oh potessi io presto morire, andarmene, libero, là dov’egli dimora! oh potessi presto raggiungerlo!

E lo raggiunse di fatto.

Ora potremo noi dileggiare un trasporto di fede sì vivo? E siamo noi ben sicuri che tutto ciò non fosse che fede, che allucinazione, che sogno? Ho sentito uomini colti e severi dire coll’espressione d’un convincimento incrollabile: «ciò è falso, ciò è vero, ciò solamente sussiste, fin là e non più oltre voi dovete innalzare l’edifizio della vostra fede.» Presuntuosi! E fino a qual punto hanno essi scrutato nelle viscere della natura? Fino a qual pagina essa ha loro aperto il libro meraviglioso de’ suoi segreti? Che vi hanno essi letto? La fede è finita: dalle sue basi incrollabili noi possiamo trarre delle conseguenze [76] finite, perciò spesso imperfette: ma il dubbio solo è grande, sconfinato come l’immenso universo, incommensurabile come l’oceano, profondo e tenebroso come gli abissi dell’anima umana: il dubbio è la rivelazione della scienza, — essa lo cerca immolandogli ogni fede — poichè una sola fede esiste, quella del dubbio.

Ma veniamo al nostro racconto.


In un caldo mattino di agosto dell’anno 1840, un elegante calesse tirato da due buoni cavalli amburghesi, sollevava un nembo di polvere sulla via che da Raab mena a Vienna. Su quel calesse vi era Riccardo Waitzen: egli veniva da Ofen; era uscito di tutela due giorni prima, e andava a domiciliarsi nella capitale dell’impero, con ventidue anni, due cavalli amburghesi, uno spartito di Mozart nella sua valigia e un ordine di pagamento di cento mila fiorini sopra una banca principale di Vienna. Riccardo Waitzen si sentiva equilibrato come un principe nella sua carrozza; egli non era mai stato così felice, e poichè la felicità eccessiva sente assai spesso della natura del dolore, il giovine era portato a sentimenti malinconici, e guardava il sorgere del sole dietro le foreste del lago di Neusiedl con aspetto cupo e turbato, come se quel giorno fosse stato l’estremo della sua felicità e delle sue [77] speranze. Questa sensibilità che si eccita e si ridesta alla vista della natura ci dice che Riccardo non era cattivo e che il suo animo era suscettibile di sentimenti delicati e profondi: sì, egli era tale, e lo sarebbe per certo rimasto se egli non fosse uscito da Ofen, se gli avvenimenti futuri della sua vita non ne avessero sconvolto l’indole e il cuore. Poveretto! il giovine non aveva più nè padre nè madre, anzi, egli non li aveva mai conosciuti; non aveva ricevuto quella dolce e perseverante educazione della famiglia che s’immedesima in noi e perdura a traverso tutte le peripezie della vita: uscito da un collegio a diciotto anni, egli conosceva le coniugazioni latine, e i primi elementi della storia, sapeva suonare un valzer di Bach, e cantare una cabaletta di Schubert o di Thalberg; ma il suo cuore era rimasto costantemente la parte più negletta di lui: egli non aveva amato, egli non si era mai sentito tratto ad amare; la sua natura lo chiamava soltanto al piacere, all’incostanza, alla vita clamorosa e felice. Riccardo non aveva che una passione, una sola, ma energica, prepotente, assoluta, la passione ruinosa del giuoco, e fu da essa che ebbero origine quegli avvenimenti che noi stiamo per raccontare. Non ci arresteremo su quei due primi anni che egli trascorse così ignorato nella capitale; noi non lo considereremo che nella sua vita di artista [78] e di amante, e aggiungeremo solamente che un anno dopo quel primo mattino di agosto, egli aveva ventitre anni, un solo cavallo amburghese, lo spartito di Mozart ancora nella sua valigia, e cinque mila fiorini di capitale depositati alla banca. E finalmente un’altr’anno dopo, egli non aveva più che ventiquattro anni, lo spartito inalienabile di Mozart, e cinquantamila fiorini di debito. Il giuoco lo aveva rovinato.


Ma prima che Riccardo Waitzen, per una di quelle predilezioni della fortuna così rare negli annali del genio, si fosse acquistato per tutta la Germania fama di artista straordinario in due soli anni di studii e di occupazioni indefesse, era già conosciuto nei grandi centri di Vienna come un giovine la cui eleganza e la cui liberalità avevano superato ogni esempio. Bisogna aggiungere che Riccardo era bello, di quella bellezza intatta, sorridente, fiorita, da cui traspare, come la luce in un vaso d’alabastro, l’interna contentezza dell’anima: il dolore non aveva tracciata la più piccola ruga su quel volto, e, a dire il vero, è d’uopo confessare che egli ignorava completamente cosa fosse il dolore.


Non so se qualcuno de’ miei lettori, qualcuno di coloro che sono portati dalla loro natura a riflettere e a trarre il meglio [79] che si può dalla dubbia morale dei costumi presenti, si sia mai tolto seco uno di questi esseri che in tutte le società, in tutte le nazioni, rappresentano la classe più improduttrice, più inoperosa e più riprovevole del popolo — i lions, i dandies, i zerbini — e rinchiusoselo nella sua camera, da solo a solo, e citatolo al tribunale incorruttibile della sua coscienza. Io mi sento umiliato nella mia natura di uomo all’idea di emettere un giudizio su queste creature. Io li vorrei poco meno che esclusi dalla nostra grande famiglia, nè dubito che verrà un tempo in cui l’umanità riverente ai due grandi principii d’ogni ordine sociale che sono la punizione dell’ozio e la santità e la ricompensa del lavoro, condannerà all’ostracismo e al disprezzo questa classe inoperosa e fatale. Giova però osservare che il fashionable inglese ha certe eccentricità proprie della sua nazione che ne fanno un tipo interessante e curioso: il tedesco è quasi sempre assai colto spesso artista o poeta: il francese splendido, originale, simpatico, impaziente di profondere tutta la sua fortuna per avere il diritto di uccidersi a venticinque anni, o di rientrare con decoro nella vita domestica: ma l’italiano non ambisce che lo sfoggio dell’abito, non ha nè arte, nè studio nè distinzione alcuna, nè pregio alcuno intellettuale: egli è costantemente il più frivolo, il più ignorante, e il più scipito di tutti.

[80]

Riccardo non era però tanto caduto in fondo d’ogni bassezza che non riconoscesse l’avvilimento che gli proveniva da quella sua vita insipida e vana. «Io ho più di cento mila lire di debito, diceva egli una sera a sè stesso, una somma che non potrò più restituire; la fortuna ha cessato di sorridermi, e di tutto ciò che mi aveva accordato una volta non mi è rimasto nè un confidente, nè un amico, nè tampoco uno di quei buoni cavalli amburghesi che aveva portato meco da Ofen: in verità gli è ben tempo che io riprenda tra le mani quell’eccellente spartito di Mozart che riassume tutte le mie memorie di collegio: non per nulla la Provvidenza lo avrà collocato tra gli arnesi della mia guardaroba, e conservatomelo per due anni nel fondo della mia vecchia valigia». Riccardo meditava su queste e tante altre cose più tristi tra il frastuono d’una festa da ballo, sdrajato sopra un sofà collocato nello sfondo di una finestra, di cui aveva racchiuse le cortine per nascondersi alla vista de’ suoi amici. Era la prima volta che il pensiero del suo avvenire veniva a collocarsi come un incubo assiduo, pesante, affannoso, tra lui e l’abbandono prestabilito della sua vita: Riccardo, soffriva e sentiva per la prima volta di soffrire.

Ma mentre egli si abbandona con una voluttà ancora ignorata a questo nuovo sentimento di dolore, ode profferire il suo [81] nome, sente che si cerca di lui; e il giovine si scuote, si passa le mani sul viso, si racconcia la zazzera colle dita, si alza, e si slancia sorridente nella sala.

Una vaga fanciulla di sedici anni, la cui voce era melodiosa come quel bisbiglio degli usignuoli, delle farfalle, e dei fiori che sì ascolta nelle prime notti di aprile, era stata pregata di cantare una vecchia leggenda tedesca ordita sopra i motivi d’una patetica sinfonia di Hummel, e Riccardo doveva accompagnarla al piano-forte. Anna Roof, che tale era il suo nome, era uscita di collegio pochi giorni prima, e si dicevano grandi cose della sua abilità nel canto e nel suono, ma sopratutto nel canto: ella era divenuta a un tratto la regina della festa, e aveva ricevuto un tributo di ammirazione e di elogi che poche donne avevano fino allora ottenuto. La sua bellezza aveva certo giovato a questo trionfo, ma nessuno avrebbe saputo dire perchè Anna era bella: le sue fattezze sfuggivano allo sguardo, come qualche cosa di mobile e di vaporoso; i suoi occhi avevano tutta la trasparenza del cielo, e quella profondità e quel mistero del suo azzurro; il sentimento e la malinconia nel baciare il volto di una donna, non vi avevano mai lasciato tanta parte di sè come su quello di Anna: il sentimento e la malinconia riuniti formano la natura dell’angelo, e Anna era un angelo.

[82]

Certo se v’ha al mondo un tipo vivente di donna che si informi a quell’ideale di cui ogni uomo ha portato delirando l’immagine nel cuore fino a vent’anni, quella è la donna tedesca. In verità io posso anche odiare i tedeschi, ma non posso odiare le loro spose e le loro fanciulle. È ad esse, alla loro dolcezza, al loro abbandono, alla loro fedeltà, a quella verginità di mente e di cuore, a quella cara ingenuità di fanciulla che esse sanno conservare per tutta la vita, che la Germania va debitrice della letteratura più morale e più appassionata del mondo.

È la loro moralità che regge e costituisce la famiglia, è la moralità della famiglia che regge e costituisce la nazione. Io lo ripeto; io credo che ogni buon italiano odia cordialmente un tedesco, ma vede di buon occhio le sue donne.


Dobbiamo e possiamo noi credere alla predestinazione? certo molti avvenimenti si compiono quaggiù per un concorso di circostanze che non possiamo giudicare imprevedute e immediate. Vi sono molte anime che si sentono, che si conoscono, che si cercano, che non ignorano l’esistenza di un’altra colla quale sono destinate a raggiungere la loro completazione. Tutte le unità nell’universo sono divise e separate, e tendono per le proprietà della loro natura a riunirsi: forse vi è nel fondo tenebroso [83] di questo pensiero un debole filo di luce che ci potrebbe guidare a rintracciare i segreti della vita universale, del moto, della generazione e dell’amore.

Quando Anna Roof e Riccardo si videro in quella sera la prima volta, sentirono che essi erano nati l’uno per l’altro, e che nessuna avversità di fortuna li avrebbe potuti disgiungere. Nessuno di loro aveva ancora amato, ma il giovane non aveva più di puro che il cuore; Anna aveva ancora l’ignoranza della purità e l’ignoranza della colpa: aveva la purezza naturale dell’angelo.

Quella sera fu decisiva per tutta la vita dì Waitzen; egli suonò con entusiasmo e s’inebbriò della voce divina della fanciulla.

Anna cantava con sentimento; la sua voce era debole e languida, uscivale dal petto come affannosa; era più un lamento che un canto, ma quel lamento aveva affascinato ogni cuore e spremuto delle lacrime dagli occhi di tutta quella folla spensierata e felice. Riccardo ballò colla fanciulla un valzer vertiginoso, le cui rimembranze, il cui suono non uscirono mai più dalla sua memoria, come quelle che avevano segnato per lui il primo periodo di una nuova esistenza. Quella ghirlanda di rose bianche avvizzite, quell’abito azzurro tempestato di stelle d’argento, quei capelli cadenti e scomposti, quella taglia slanciata e flessibile, tutto quell’olezzo di cielo che emanava [84] dalla sua persona, riempirono per lunghi anni la mente immaginosa del giovine con sì grande pienezza di affetti, di sensazioni e di fede, che tanta non gliene avrebbe procurato una lunga esistenza di felicità, di godimento e di amore.

Quando Riccardo, rientrato nella sua camera, rivolse lo sguardo a quegli oggetti che gli richiamavano alla memoria il suo passato, lo assalse un pentimento doloroso della sua esistenza trascorsa, di quei giorni senza amore, senza amicizia, senza coscienza di bene e di male, nei quali nulla si è raccolto, non una rimembranza, un affetto, una fede di cui riconfortarsi in quell’età nella quale non si può più vivere che di memorie. Il giovine si commosse e si armò di saldi e nobili propositi per l’avvenire: che accadesse di lui in quella notte, il cielo ed egli solo lo seppero; egli pregò e pianse come un fanciullo, si coricò colle lacrime e si ridestò tutto mutato.


Otto giorni dopo egli abitava un piccolo appartamento in una casa di fronte a quella di Anna, modo che non si frapponeva tra di loro che la distanza della via. Fu così che Riccardo poteva lanciare sul balcone della fanciulla delle piccole pallottole di carta, sulle quali effondeva tutti gli affetti della sua anima innamorata e sofferente.


Nella sua potente vitalità l’amore subisce due fasi: quella delle idee e quella [85] dei fatti, ed è la prima di esse che ha nobilitato negli uomini questo sentimento, creando una distinzione tra i loro amori e quegli degli altri esseri organizzati, poichè nell’uomo l’amore non è tanto il congiungimento delle vite, quanto è quello delle anime e delle idee. Esistono due forze nella natura umana, sulle quali si basa tutto il sistema della vita: e sono la forza di attrazione e la forza di ripulsione — l’amore e l’odio: — l’amore è quella lotta che combattono due anime per riunirsi; e la sensualità non ha più altro scopo che quello di distruggere i corpi per affrettare la fusione delle anime: ma questa fusione è impossibile nel mondo materiale senza la cessazione delle vite, è del paro impossibile nel mondo dello spirito come quella che distruggerebbe l’individualità: da ciò il desiderio di morte negli abbandoni di amore, e quel vuoto eterno e quell’insoddisfacimento tormentoso che si prova anche nell’amore corrisposto.

Ma la storia di un amore nella prima delle sue fasi, il suo nascere, il suo crescere, il suo svilupparsi, è tal cosa che sfugge alla potenza della parola. E che è ella la parola? Tutti coloro che hanno sentito potentemente si sono arrovellati contro questo povero linguaggio umano, il quale non sa accomodarsi che colla vita dei fatti, e si trova immiserito e impotente allorchè vuole esprimere la vita delle idee. Essa può [86] manifestare un fatto con un suono, con una voce, con un periodo; ma un’idea richiede dei volumi ancorchè non avesse abbracciato che un atomo impercettibile di tempo, perchè l’idea è l’infinito.

È perciò che noi pubblicheremo qui semplicemente il contenuto delle varie pallottole di carta che Anna Roof e Riccardo Waitzen si scambiarono dai loro balconi.

Il lettore che ha amato indovini le battaglie di quelle anime.


I.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Io vi amo.

II.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Io vi amo.

III.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Il vostro silenzio è inesplicabile; perchè ricevere le mie pallottole, se non mi amate? E se mi amate perchè non rispondere?

IV.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Voi mi dileggiate crudelmente, voi raccogliete volontieri le mie pallottole, voi mostrate di leggerle con commozione, e non mi rispondete; mostrate di amarmi e non me lo dite. Il vostro contegno è un enimma che tortura e confonde la mia povera ragione, allorchè io tento di decifrarlo. Qualunque sia il vostro cuore per me, o rispondetemi od abbandonerò domani questo alloggio.

[87]

I.ª pallottola di Anna a Riccardo: (Se ne ignora il contenuto essendo caduta sulla via).

II.ª pallottola di Anna a Riccardo: (Caduta come sopra).

V.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Per carità, lanciate le vostre pallottole con maggior forza; componetele di una carta più consistente.

III.ª pallottola di Anna a Riccardo: Che vi dirò io, o Riccardo? Abbiate compassione di me, perchè io più non mi riconosco in questi giorni. Ve lo dirò, sì, che vi amo, ma non mi opprimete colla vostra insistenza, non mi lusingate, non mi straziate coll’immagine d’una felicità che non può, che non deve durare.... sappiate che il filo della mia vita è spezzato.... giurate di amarmi, e vi rivelerò un segreto terribile.

VI.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Sulla mia vita, sul nostro amore, lo giuro. Dite, angelo, dite.

IV.ª pallottola di Anna a Riccardo: Il nostro amore sul quale avete ora giurato, non vi legherà a me per uno spazio maggiore di un anno. Sappiate che la mia esistenza è consumata da una malattia tremenda la quale non conosce rimedio, dall’etisia. Io devo morire indubbiamente non più tardi del mio anno diciasettesimo che compirò nella prossima primavera, nella stagione dei fiori, quando tutto mi richiamerebbe [88] alla felicità ed alla vita. Dite ora, o Riccardo, potete voi amarmi a questo prezzo? potete voi rendermi vostra?

VII.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Sono dodici giorni che non vi vedo: voi soffrite? voi siete malata? o, perdonate questo sospetto, ricusate piuttosto di vedermi? La vostra confessione mi ha atterito, e io sento più che mai il bisogno di amarvi, e di rendervi mia. Ma esistono pure dal mio canto ostacoli forse insuperabili: io vi amo, Anna, ma ho centomila franchi di debito.

V.ª pallottola di Anna a Riccardo: Il vostro cuore non vi aveva ingannato; io era malata. La speranza di tanta felicità mi ha commossa ed oppressa fino a morirne. Ho voluto meditare su tutte le possibili eventualità del nostro amore prima di rispondervi. Sono lieta che accettando il sacrificio che vi assumete di compiere col rendermi vostra, io possa dimostrarvene in qualche modo la mia riconoscenza. Ma potrò io ricompensarvi del vostro amore? Possiedo esattamente abbastanza di che pagare i vostri debiti, e dispongo liberamente dalla mia fortuna. Ma questo mutamento di stato richiederà la mia lontananza da questa città; e quindi anche la vostra. Acconsentite? Io vi offro la mia vita di un anno, ma una vita la cui potenza sarà centuplicata dalla sensibilità, dall’amore, dal pensiero della sua cessazione imminente. Un’altra donna non potrebbe [89] offrirvi un anno di ebbrezze più divoranti; la vostra esistenza trascorrerà attraverso una serie di sensazioni nuove e infuocate, io non vivrò che un anno nel tempo, ma vivrò un’eternità nell’amore. Tuttavia questa passione smisurata ha diritto ad una ricompensa: un altro patto tra noi: — voi dovete essermi fedele anche dopo la mia morte, voi dovete amarmi per tutta la vostra vita. —

VIII.ª pallottola di Riccardo ad Anna: Acconsento ad amarvi per tutta la mia vita: ma giacchè noi dovremo abbandonare questa città, non si potrebbe fare a meno di pagare i miei creditori?


Noi non diremo quante altre pallottole furono scambiate tra i due amanti, fino all’ultima di esse che era così concepita: «Venite Riccardo, tutto è combinato e compiuto».

E una settimana dopo una carrozza da posta viaggiava sulla via da Vienna ad Amburgo. Anna Roof e Riccardo Waitzen andavano a passarvi la loro settimana d’orpello.


Da questo punto ebbe principio la vita artistica di Riccardo, poichè egli non aveva appreso da giovinetto che i primi rudimenti dell’arte, e sebbene la natura lo avesse creato per essa, egli ne aveva delusi e attraversati sempre i disegni. La fanciulla non lo aveva ingannato assicurandolo [90] della sua terribile predestinazione ad una morte sicura e precoce: egli stesso s’avvedeva di quella rapida rovina che la morte andava compiendo sopra di lei; quella gemma si era sbucciata ad un tratto, troppo presto fioriva, ma di quella bellezza, fugace, di quello schiudersi violento del fiore raccolto e collocato nel vaso d’acqua, i cui petali si distaccano ancora non avvizziti dal gambo: ma nondimeno essa era bella; era mesta, ma di quella mestizia che forse negli esseri soprannaturali costituisce la gioja; l’amore la rivestiva di tutta la sua luce, il suo amore era tutta la sua vita, e la sua vita bastava a tutto il suo amore.


Coloro che hanno veramente amato sanno comprendere l’eternità di un anno di amore, le mille voluttà ch’egli può offrire in un giorno, in un’ora, in un fugace momento, quegli abbandoni riuniti di ebbrezza e di cuore, in cui si dice: basta, te ne scongiuro, lasciami amico, perchè io temo di morire.... io temo che la mia natura s’infranga.

Riccardo non aveva ancora amato: come la maggior parte degli uomini egli aveva trasvolato su tutto, sfiorato tutto; ma non era giunto mai al fondo di un cuore, non aveva conosciuto quel profondo possedimento morale che costituisce unicamente l’amore, che unicamente lo autorizza, che eleva il possedimento fisico fino alla sua [91] celeste sublimità, e la cui privazione fa sì che molti di coloro i quali credono di avere smisuratamente amato, muoiono senza aver conosciuto questo divino sentimento.


Fu quindi una serie di sensazioni nuove e profonde quella che venne a ridestare la sensibilità assopita del giovine. Riccardo si vide come risvegliato da uno di quei sogni i quali ci sembrano così belli, così lusinghieri nel sonno, e che al mattino ci appaiono insipidi e vani. Allo svelarsi di questa verità egli avrebbe potuto rinvenire un conforto nelle seduzioni della sua vita avvenire, ma questa dolcezza eragli amareggiata da un convincimento terribile, dalla perdita inevitabile di Anna.

Riccardo non poteva illudersi: egli lo vedeva, egli lo sentiva; quello stesso amore, quegli stessi abbandoni della fanciulla scuotevano troppo profondamente la sua sensibilità.... oh ella era sì fragile, sì delicata.... l’avresti detta uno di quegli steli di giunchiglie che si spezzano sotto il peso di una goccia di rugiada, una di quelle piccole farfalle azzurrine che s’intorpidiscono e muoiono sotto il soffio più sottile del tuo alito... e il giovine temeva sovente di abbracciarla, egli poteva stringerla troppo forte, farle male, intorpidire, arrestare quella corrente vorticosa della sua vita; scuotere, avvizzire quelle forme divine e sensibili come le foglie pudiche della mimosa.

[92]

Questo ritegno forzato e volonteroso ad un tempo, quel non so che di arcano che circonda una creatura sì sofferente, sì delicata, e sì frale; quella nobile imponenza del dolore, quella triste e solenne maestà che proveniale dalla morte, che era già in lei, che rivelavasi appunto in quell’azione centuplicata della vita, ne formavano per Riccardo l’oggetto di un culto superstizioso e indefesso. Ma ciò che affascinava soprattutto la mente esaltata del giovine, era la dolcezza, l’espressione ineffabile del suo canto. Anna cantava con forza, con sentimento; cantava spesso dalla mattina alla sera, la musica era il suo linguaggio, essa ne conosceva tutte le leggi, tutte le intonazioni, tutti gli effetti, tutte le modulazioni più arcane.... Ma ciò che v’era di incomprensibile, direi quasi di pauroso nel suo canto, era che esso non ridestava idee, od affetti, o memorie di questa terra; colui che l’udiva si sentita rivivere con sensazioni nuove, incomprensibili, inusitate, in un mondo del pari inusitato....

Era forse l’approssimarsi per lei di questo mondo che le permetteva di udirne, e di rivelarne le armonie come l’eco di un eco?


Perocchè io credo che esistano armonie, linguaggi, rivelazioni tra mondi e mondi. Quella vaga malinconia che s’impossessa talora di noi, che sente come del rimpianto, che sembra accennare a gioie, a dolori, [93] ad affetti trascorsi, e ci occupa tutto, e non si sa cosa sia, è la rimembranza di un mondo passato: quelle aspirazioni che riempiono ed agitano tutta la nostra vita, quel succedersi di tante speranze sempre deluse, e sempre rinnovate, quell’avidità insistente dell’infinito, non sono che l’attrazione di un mondo avvenire. Noi viviamo nell’eternità, collocati tra queste due potenze ugualmente dilette, e ugualmente formidabili: sono queste attrazioni del passato e del futuro che dilatano i confini della nostra esistenza, anzi che la costituiscono, poichè noi non vivremmo senza di esse che la vita materiale dell’istante.

L’infinito è nell’uomo. Chi non lo sente? Noi viviamo in esso a sbalzi, a tratti, a periodi, a vite parziali; ma passiamo dall’una in un’altra come gli anelli di una catena riunita alle sue estremità, come i punti lineari di un circolo; noi giriamo sulla superficie senza mai uscirne. Ecco l’infanzia: voi non vi siete ancora tutto emancipato dalla vecchia vita: avete modi, pensieri, aspirazioni inadatte a quello stato di cose nel quale siete rinato; vi sentite smarriti, confusi, impicciati; egli è che voi agite tuttora per le abitudini di un mondo antecedente: ma la vostra intelligenza, dopo aver lottato trent’anni per redimersi, vi pone finalmente in equilibrio tra queste due attrazioni, ed ecco a quell’età la pienezza della vita, sulla quale oscillate un istante [94] prima di uscire dalla corrente, prima di subire l’attrazione di un mondo avvenire che vi precipita verso la vecchiaia e verso la morte; ma la morte non esiste; essa è la vita e la luce.

Avete mai osservato un infermo? egli è buono, egli è docile, la sua natura si è tutta mutata, per poco che il suo spirito sia stato coltivato, egli sarà anche poeta: egli è che più si rallentano i nodi che ci avvinghiano a questo mondo, e più noi ci sentiamo posseduti dall’altro: i vecchi, i sofferenti, gl’infermi ne subiscono già la natura; essi si trovano collocati tra le due vite, lì, sul margine, sentono ancora dell’una e dall’altra, e non appartengono più interamente ad alcuna. L’umanità riverisce nel dolore e nella vecchiaia le scolte di questo mondo invocato.

E certo quel fascino del canto di Anna quella emanazione divina e incomprensibile di tutta la sua persona, non erano che l’eco di una rivelazione di quel mondo. E che cosa è il canto? Tutti i popoli cantano, ma gli sventurati sopra tutti. Egli è forse la rimembranza di un linguaggio che sparve o le prime voci di un linguaggio che sorge; forse la lingua delle passioni, di cui noi balbutiamo le prime sillabe disordinate e sconnesse. Anna cantava il suo amore e la sua morte, e le sue note erano l’elegia del suo destino. — Anche gli uccelli cantano morendo.

[95]

Mi ricordo che quando era fanciullo mi prendeva vaghezza di andare le notti di primavera ad ascoltare il canto degli usignuoli. Una sera era per ciò uscito alla campagna, e m’era seduto presso una siepe poco distante da un olmo su cui uno di essi cantava con tale abbandono, e con note sì malinconiche e toccanti che io, senza saperne il perchè, mi struggevo tutto in lacrime udendolo. Si piange assai facilmente a quell’età, e tutta la vita avvenire ha di rado un sorriso che valga una sola di quelle lacrime. La luna era limpida e piena e inondava quelle campagne silenziose della sua luce; tutta la valle risuonava di quel canto. Ma nel colmo della notte la sua voce divenne fioca e lamentevole; a poco a poco le sue note si mutarono in un gemito prolungato, sommesso, poi interrotto... poi non udii più nulla: pensai che fosse volato via. Stava allora per allontanarmi quando intesi un improvviso rumorio tra quelle frondi, e sentii qualche cosa caderne, urtando di ramo in ramo:.... mi avvicinai esitando, e vidi che era un uccello, un usignuolo, certo quello medesimo; lo raccolsi, era ancor vivo, ma sì delicato, sì leggiero, non aveva più che le penne; il suo piccolo cuore batteva sì concitato che non poteva numerarne le pulsazioni.... il poveretto mi spirò tra le mani pochi minuti dopo. Non ho mai dimenticato quell’uccello.

[96]

Strana potenza dell’amore! Riccardo divenne artista per Anna: fu a lei che egli dovette la sua gloria, la sua fecondità, il suo nome. Per quale mistero essa aveva potuto apprendergli in un anno i segreti più imperscrutabili dell’arte? essa che pure li ignorava, e a cui forse non erano suggeriti o svelati che da un istinto? Ecco la sorgente di quel terrore superstizioso e fatale che invase tutta la vita del giovine, e che si accrebbe dopo la cessata esistenza di Anna. Essa avevalo educato col canto. Sotto l’incantesimo delle sue note, la mano inesperta di Riccardo, quasi passiva, quasi non volente aveva creato delle melodie straordinarie: a poco a poco il suo orecchio, il suo cuore si erano aperti a quell’armonia, a quel ritmo celeste della musica; il giovine vi si era abbandonato con trasporto, tutto era inusitato per lui, tutto delizioso e incantevole; egli aveva provato delle sensazioni nuove, energiche, insperate, la cui potenza lo aveva quasi atterrito; come cosa che egli aveva creduto impossibile nell’arida realtà della sua vita trascorsa. Pareva che la fanciulla non volesse dividersi da lui senza apprendergli tutto, senza trasfondersi tutta in lui stesso. «Mio povero amico, le diceva ella sovente, tu rimarrai solo assai presto, ma io sento che non ti abbandonerò anche estinta: il mio spirito veglierà costantemente presso di te, e ti accompagnerà come una guida [97] invisibile sulla tua via abbandonata e deserta: come una fiaccola solitaria illuminerà della modesta sua luce la tua povera vita di artista. Ma se pure io dovessi talvolta separarmi da te, se tu più non mi sentissi al tuo fianco, e avessi bisogno della tua Anna.... oh allora chiamami; suona quella sinfonia memorabile di Hummel, le cui note ci ricordano il primo giorno avventurato del nostro amore, e a quel richiamo, io abbandonerò tutto, io volerò ancora presso di te, dovessi per ciò divellermi dall’infinito, e rinunciare alle gioie più sacre e più inebrianti del cielo».

E tredici mesi dopo le nozze di Riccardo e di Anna, la Germania era commossa dall’apparizione di una raccolta, di grandiosi componimenti musicali, che un artista già grande e ancora ignorato dedicava sotto il titolo di Foglie di cipresso, alla santa memoria di Anna Roof sua moglie.

Passeremo di volo su tutte le fasi della sua vita di artista: non accenneremo ad alcuna delle sue composizioni più elette, benchè quell’ingiusta dimenticanza a cui furono condannate da una fatalità dolorosa, altrettanto che inesplicabile, ci ecciti a riporle, per quanto è in noi, alla luce della pubblicità e della gloria. Ma ciò appartiene al compito dell’arte e sfugge alle esigenze del romanzo. E chi d’altronde [98] potrebbe rintracciare nel vasto oceano dell’armonia, tra i ruderi de’ suoi monumenti abbattuti le reliquie di quelle concezioni obbliate e disperse? Prodigio ineffabile dell’amore! Egli è sopravvissuto alla scienza, egli che ne è la sintesi, egli che è la scienza immortale della vita. Il nome di Riccardo accoppiato alle glorie palesi dell’arte fu travolto nell’oscurità e nell’obblìo, congiunto alle gioie segrete dell’affetto è passato splendido e illeso a traverso le tenebre secolari del tempo. L’amore giudice e maestro dell’umanità ne registra la storia ne’ suoi volumi infiniti. L’umanità è nata e si perpetua coll’amore, nè potrà ricomporsi che nella sua tomba medesima.

Dopo la perdita di Anna, Riccardo abbandonò Amburgo, e pensò che la vista di nuovi cieli e di nuovi costumi lo avrebbe distolto dal suo dolore operoso e costante. Venne a Linz, attraversando quegli ultimi gioghi delle Alpi che si perdono nelle pianure del Danubio, e poichè tutti quei luoghi gli parlavano ancora di lei e della sua infanzia, decise d’attraversare la Germania e di entrare nella Francia per quel fiume e pel Reno.

Fu sui teatri di Ratisbona e di Straubing che egli raccolse i suoi primi allori musicali, e di là festeggiato e onorato in tutti i diversi stadii del suo cammino, ad Amberga, ad Asch, a Coburgo, a Francoforte, a Magonza, entrò in Parigi pochi [99] mesi dopo la sua partenza, preceduto da tutti gli allettamenti della pubblicità e della fama.

Riccardo passò cinque anni nella capitale della Francia, allora come attualmente, l’unico paese della vecchia Europa ove le arti e le scienze fossero rimunerate di fama e di danaro: l’unico centro ove si riflettesse tuttora un debole raggio di quella civiltà che è tramontata nell’antico continente per risorgere sulle rive del nuovo mondo. Egli vi si vide ad un tratto onorato, dovizioso, felice; ma una profonda amarezza veniva a turbare di tempo in tempo l’immensità delle sue gioie insperate: la rimembranza, la terribile rimembranza, diremmo quasi la presenza spirituale di Anna. Riccardo era buono, sensibile, affettuoso, ma la sua natura era variabile, sdegnosa di riposi e d’indugii; egli non sapeva essere lungamente misero o lungamente felice, non sapeva, come tanti esseri sensibili e delicati, sacrificarsi ad una astrazione, ad un’idea fissa, ad un voto, darsi ad un affetto per tutta la vita: e che era egli quell’affetto?.... quali diritti aveva il passato sopra di lui? perchè tributare ad un amore che aveva cessato di esistere il sacrificio di quelli che potevano ancora rallegrare la sua vita spensierata e ridente? Egli aveva pianta la fanciulla per due anni, l’aveva amata fortemente e nobilmente, e questo lungo tributo di lagrime [100] e di memorie doveva bastare alle terribili esigenze di quell’amore sepolto. Riccardo lo credeva, lo voleva, egli sentiva che la vita ha i suoi diritti, la virtù i suoi doveri, e l’umanità le sue leggi; tutto inesorabile, tutto prepotente e severo.

Noi lo diremo, Riccardo non amava più Anna: non solo egli avrebbe voluto dimenticare di averla amata, ma per una di quelle facili ingratitudini di cui tanto si compiace lo spirito umano, egli avrebbe desiderato di obliare anche il suo debito, il debito della sua celebrità, del suo nome, della sua ricchezza medesima.

Nulla è più grave e penoso, nulla è più insoffribile alla maggior parte degli uomini che il peso della riconoscenza. Assai di rado, se il benefattore non assume i modi e l’apparenza del beneficato (ciò che pretendiamo assai spesso) noi possiamo perdonargli il suo beneficio. È un debito tremendo che ci toglie ogni quiete, che ci rende avidi e impazienti di soddisfarlo anche ad usura. Quelle minute soddisfazioni, quelle piccole vittorie che si riportano ogni giorno, ogni ora, in questa lotta indefessa tra anima ed anima, tra creatura e creatura, in queste battaglie assidue e spietate dell’egoismo, sono le uniche sensazioni che ci confortino, nella nostra umana piccolezza, dei mali grandi e reali della vita; — tutto ciò è dolce, ma nulla è più dolce e più consolante che lo sciogliersi dal vincolo della gratitudine.

[101]

Noi non l’abbiamo detto; ma abbiamo sentito più volte la nostra coscienza sussurrarci all’orecchio: oh com’è dolce l’essere ingrati!

Dopo la morte di Anna Riccardo aveva passato sei mesi interi senza suonare: il suo dolore era ancora troppo vivo, troppo recente; pareagli che ogni nota richiamandogli qualche circostanza della sua vita felice, un atto, un detto, un sorriso della fanciulla, avrebbegli ricordata con una realtà troppo eloquente, la memoria terribile di quella perdita. Ogni rimembranza di lei era connessa ad una rimembranza della sua arte: ripassando su tutti gli studii musicali di quella sua carriera prodigiosa, egli poteva ricostruire tutto intero l’edificio del suo amore e delle sue memorie: Anna era morta, ma avevagli lasciata un’eredità di rimembranze così potenti che avrebbero bastato a riempiere tutta una vita. L’arte e l’amore si erano fusi per lei, e così unite le erano sopravvissuti nel giovine: forse in tal modo ella aveva tentato di eternare in lui la sua memoria, affidando al suo cuore di artista i doveri e gli affetti del suo cuore di amante.

Ma una sera Riccardo aveva avuto vaghezza di risuonare quella sinfonia di Hummel che la fanciulla avevagli indicata per richiamarla. Egli aveva errato tutto quel giorno per le campagne, l’autunno [102] volgeva al suo termine, e l’inverno si riaffacciava colle sue brezze; cadevano dagli alberi le ultime foglie ingiallite, e i piccoli scriccioli nascosti nelle siepi alternavano quei loro gridi acuti e lamentevoli come di qualche cosa che pianga: l’anima di Riccardo era agitata da strane sensazioni.... egli pensava a lei.... egli avrebbe data la sua vita per rivivere un giorno nel suo amore, per ritogliere alla mente inesorabile quella sua Anna adorata.

Rientrò nella sua camera che le prime tenebre della notte ne velavano stranamente gli oggetti senza nasconderli e senza lasciarne apparire le forme; il vento faceva gemere gli alberi del suo giardino, e gli steli dei fiori collocati nei vasi della sua finestra, percuotevano spesso, così agitati, nei vetri come persona che accenni di entrare. Riccardo si sedette risoluto al pianoforte e suonò la sinfonia fatale di Hummel. Prodigio meraviglioso! Le sue mani scorrevano come trascinate, come mosse da una forza estranea, sulla tastiera; le note ne uscivano così limpide, così pure, così simili alla voce umana, e più propriamente alla voce di Anna, che il giovine si sentì rivivere un istante in tutta la più dolce realtà del suo passato; egli si sentiva invaso da un’altr’anima, sentiva la sua esistenza raddoppiata, vi era qualche cosa che gravitava sopra di lui senza pesare, che lo investiva tutto senza [103] toccarlo, che parlavagli senza essere udito; egli udiva suonare e pareagli ad un tempo che tutto fosse silenzio intorno a lui, senonchè la fiammella della candela che gli ardeva d’innanzi, crepitava stranamente, curvandosi da un lato e dall’altro come sotto l’azione di un soffio invisibile.


Riccardo non dimenticò mai quella notte. Egli visse più volte di questa doppia e misteriosa esistenza, le cui sensazioni anzichè estinguersi coll’abitudine, diventavano sempre più delicate e più vive. È in quegli istanti che egli aveva creato quelle melodie così dolci e così patetiche, che gli procurarono, ancora vivente, una celebrità invidiatagli da tutti i più grandi compositori della Germania. Fu per ciò che le sue opere, benchè sorte in un paese che vanta una musica ideale come la sua letteratura, e che può dirsi la patria della musica elegiaca, furono segnalate per la loro malinconia e per i sentimenti singolari e nuovissimi che suscitavano anche nei cuori più induriti e più aridi. Ma il carattere di Riccardo formava uno strano contrasto coll’indole delle sue creazioni: egli lo sentiva, egli comprendeva del paro che nulla proveniagli da sè stesso, che la sua musica non era sua, era di Anna. Fu forse questa convinzione che uccise il suo amore e la sua riverenza per essa? [104] Noi esitiamo a credere che un’invidia così ingiusta e colpevole abbia potuto allontanare dal cuore del giovane la dolce immagine della fanciulla, e quasi rimproverarle la tenacità del suo affetto, e l’assiduità della sua dimora presso di lui; egli è però ben certo, che due anni dopo la sua perdita, l’anima di Riccardo incominciò a ribellarsi a quella memoria, e ciò che aveva formato un tempo uno dei suoi allettamenti più dolci, quella presenza spirituale di lei che manifestavasi appunto nella fecondità e nella potenza improvvisa del suo genio, divenne pel giovine un oggetto di terrore e di sdegno.

Riccardo si sentiva trascinato al realismo della vita, e forse la sua anima era troppo debole per reggere all’imponenza di quell’affetto, troppo poco elevata per inorgoglirsene e tributargli il sacrificio di tutta la sua esistenza. E pure egli lo aveva promesso: «tu mi amerai anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita»; ecco il patto terribile che lo aveva vincolato a quella fanciulla, e che ella sembrava richiamargli ad ogni ora, ad ogni istante, rinfacciandogli colla tremenda solennità della sua presenza, il disegno che egli aveva concepito d’infrangerlo. Parve a Riccardo che vi fosse qualche cosa di crudele in quel pretendere il compimento d’un sacrificio sì inutile e sì doloroso; egli pensò che l’insistenza della fanciulla [105] lo sciogliesse dall’obbligo della sua gratitudine e del suo amore, e credette che avrebbe potuto dimenticarla senza essere infedele ed ingrato.

Egli è così facile il credere ciò che è nei nostri voti, che Riccardo si avvalorò di quella persuasione per obbliare senza rimorso ciò che doveva essere l’oggetto di tutti i suoi affetti di amante, e di tutte le sue aspirazioni di artista: a poco a poco il suo spirito si sentì preparato a quella rivolta, e un giorno esitò, poi decise, e si abbandonò risoluto alle sue nuove passioni, pregustando l’ebbrezza di esaudirle senza lacrime e senza pentimento.

Passò così quattro anni, durante i quali egli non aveva mai più udito quella fatale sinfonia di Hummel, nè nota alcuna che potesse richiamargli il suo passato: l’immagine della fanciulla era così svanita a poco a poco dal suo cuore, e se vi tornava qualche volta egli sapeva attutirne e dimenticarne i rimproveri nella gioia di affetti più recenti e più lieti.

Riccardo era felice.

Quattro anni dopo questo ultimo avvenimento, Waitzen diresse al suo amico Giorgio Duplessy, direttore della società degli artisti la lettera seguente:

«Mio caro amico. Come tu sai, io sposerò domattina madamigella Emilia Duport, quella bella e saggia Guascona che abbiamo conosciuto insieme a Pontoise, [106] ricca de’ suoi diciott’anni e d’un mezzo milione di dote. Papà Duport darà per ciò domani a sera una splendida festa da ballo nel suo palazzo al boulevard Montmartre N. 52. Egli, mia moglie e il tuo amico ti pregano di intervenirvi».


Come aveva passato Riccardo quei quattro anni? Egli era ricaduto nel suo abbandono abituale, in quell’avvidità di piaceri frivoli e vani pei quali aveva già un tempo dissipata quella fortuna che aveva portato seco da Ofen. Non aveva più amato ma si era dato ai piccoli amori di un giorno a quegli amori senza trasporti, senza dolori, senza quelle gioie opprimenti che danno le grandi passioni, simili a quei fiori che noi raccogliamo quasi senza avvedercene camminando, e che sfogliamo e gettiamo sulla via dopo averne aspirato una sola volta il profumo. Nei due primi anni della sua vedovanza egli aveva già stabilita la sua fama d’artista ed ottenuto un successo che nulla avrebbegli più potuto contendere. In quella sua stessa inazione egli si era serbato un posto eminente tra le più grandi individualità della scienza, e vi sarebbe rimasto anche perseverandovi, ma l’amore dell’arte e della vita domestica avevano ripreso il loro impero sopra di lui, e Riccardo contava oramai di abbandonarvisi per tutta la sua esistenza.

[107]

Non aveva egli più pensato ad Anna durante tutto quel tempo? La memoria della fanciulla era dunque svanita per sempre dal suo cuore? No, egli aveva riprovati ancora dei momenti paurosi, aveva risentite delle memorie strazianti; in quegli stessi abbandoni de’ suoi mille amori, nell’ebbrezza delle sue gioie, nel colmo della sua felicità, l’immagine di lei gli s’era riaffacciata cupa, minacciosa, inesorabile: il giovine aveva risentita la presenza di lei con tutte quelle circostanze che gliel’avevano palesata la prima volta; aveva avuti dei sogni tremendi dai quali si era destato inorridito, compreso d’uno sgomento che rinasceva ogni notte più tormentoso e più atroce. E più volte, sotto l’oppressione di quell’incubo, Riccardo aveva pregato la fanciulla di perdonargli: l’aveva pregata come un ragazzo, piangendo; le si era prostrato, le si era umiliato come un codardo, tremando d’innanzi all’orrenda apparizione di quell’immagine spaventevole. Perchè essa le appariva nel sogno sotto altre forme, e non per questo perdeva della sua somiglianza. Riccardo la vedeva dappertutto nelle prime ombre della notte, in tutti gli oggetti che si presentavano al suo sguardo, in quei riflessi profondi e fantastici degli specchi che ricevono l’ultima luce del giorno, nelle persone da lui amate, in sè stesso; sì, e ciò era più terribile, in sè stesso. Egli se ne [108] sentiva invaso come da uno spirito che assorbisse tutte le sue facoltà, che lo paralizzasse, che lo possedesse tutto senza lasciargli che l’impotente intuizione del suo stato. Vi furono dei momenti, in cui Riccardo aveva pensato di sottrarsi col suicidio all’orrenda persecuzione di quell’immagine; vi fu un giorno in cui, il giovine inorridiva pensandovi, aveva osato perfino di maledirla. E che poteva ora pretendere da lui quella donna? quali erano i tremendi disegni di quello spirito severo e implacabile? Avvelenargli tutte le sorgenti della vita, mescersi a tutte le sue gioie, travolgere tutti i suoi affetti, turbare tutti i suoi sonni.... perchè.... sì, era d’uopo che egli il confessasse a sè stesso, egli si era deciso per ciò solo a scegliersi una nuova compagna; per avere una creatura al suo fianco, cui dire nella notte: svegliati, te ne prego, ho paura, ella è lì, vedila; ella mi vuole, ella mi domanda.

················

Riccardo volgeva nella sua mente questi pensieri in quella stessa ora felice che seguiva al suo nodo fortunato; tra lo stesso fragore del ballo, in quella sala di papà Duport che per una strana somiglianza di decorazioni e di arredi gli richiamava alla memoria quella sala di una casa sconosciuta ove aveva veduto Anna la prima volta.

[109]

Ma egli fu riscosso assai presto da quella preoccupazione affannosa: tutto gli parlava di felicità e di amore in quel luogo, e la danza e quel frastuono di mille voci, e quel profumo inebbriante di donna, — emanazione della loro anima, mista a quegli atomi più preziosi della loro persona che esse abbandonano col moto, come i fiori agitati dal vento abbandonano la parte più pura del loro polline fecondatore. Ma nell’uomo questo profumo, il bacio di questi atomi volatizzati, non desta che la voluttà, e non suscita che desiderii di amore: nel fiore, essere più perfetto, soddisfa egli solo a tutte le leggi della fecondazione.

Riccardo si abbandonò con trasporto alla danza e si scagliò in quel turbine di valseggiatori, ove si confuse abbracciato alla fanciulla. Sotto quella sua taglia piena ad un tempo e flessibile, la mano del giovine indovinava le dolci ondulazioni delle sue forme: vi era in esse, nella loro mobilità, nel loro fremito qualche cosa di più eloquente del desiderio; il cuore di Emilia batteva concitato e sommesso, spesso interrotto come il timido linguaggio delle passioni: i ricci de’ suoi capelli disciolti lambivano la fronte del giovine come un bacio protratto; le lunghe pieghe del suo abito ne avvolgevano, agitandosi, la persona quasi a confonderli in un essere solo e indivisibile.

In quell’abbisso di voluttà Riccardo dimenticò il suo passato e sè stesso.

[110]

Ma nell’ora che la festa volgeva quasi al suo termine, in un momento in cui i danzatori si riposavano sui soffici divani della sala, e le fanciulle si asciugavano coi loro fazzolettini di batista, quelle gemme importune di sudore che piovevano dai loro volti arrossati; in quel periodo di solenni meditazioni in cui ripassano d’innanzi a noi tutte le gioie, tutti i timori, tutte le ansietà della festa; e la stretta di mano e il bacio involato, e il fremito di tutta la persona, e, la parola sussurrata all’orecchio, e, Dio lo perdoni, quel contatto ardente e magnetico del ginocchio che uccide tante innocenze nei balli, e basta a svelare egli solo tutti gli arcani più imperscrutabili della vita, il signor Duplessy entrò nella sala tenendo per mano una bella fanciulla, e disse al signor Duport.

«Perchè non fate suonare vostro genero?.... ecco qui una giovine artista che ha una voce portentosa da soprano, e che accompagnata da lui, ci farà sentire tutte le meraviglie del suo canto».

Pregato dal signor Duport, Riccardo si sedette senza esitazione al pianoforte; tutte le copie dei danzatori gli si disposero in circolo; egli era lieto di dare a sua moglie e a quella vaga riunione di giovani e di signore un saggio straordinario della sua abilità musicale.

Ma nel rivolgersi alla fanciulli per invitarla a sedersi presso di lui, egli trasalì [111] nello scorgerne le sembianze. Era lo stesso profilo di Anna, la stessa persona esile e delicata, lo stesso aspetto pensieroso e soffrente; ma v’era ancora di più, essa vestiva un abito azzurro sparso di stelle d’argento, e pendevale tra le treccie scomposte una corona di rose bianche avvizzite. Tutto si riaffacciò allora alla sua mente: erano scorsi sei anni che in una sala come quella, in una festa da ballo, forse in quell’ora medesima, egli aveva conosciuto quella fanciulla a cui lo aveva legato un giuramento formidabile, a cui aveva fatto sacramento di fedeltà e di amore per tutta la vita; in quel giorno stesso egli aveva infranto il suo patto, in quel giorno stesso egli doveva forse subirne una punizione tremenda.

Riccardo impallidì a questa rimembranza e disse alla fanciulla con voce interrotta:

«Che cosa desiderate di cantare? Incominciate».

«Non so, diss’ella, ciò che mi verrà pel primo sotto le mani» e tolto un volume di musica, e apertolo a caso, lo collocò sul leggio. Riccardo vi gettò gli occhi e trattenne a forza un grido di spavento.... era quella sinfonia abborrita di Hummel!.....

Allora il giovine avrebbe voluto ritirarsi, ma non era più in tempo; la fanciulla aveva già incominciato.... era la stessa voce di Anna.... un brivido di morte [112] scorse per tutte le fibbre di Riccardo; egli pure volle incominciare, ma, orribile cosa! le sue mani erano irrigidite; le sue dita toccavano la tastiera e non potevano premerla; cinque o sei note soltanto risposero a’ suoi sforzi impotenti, e convulsi: la sua fronte si coperse di un sudore gelato e un pallore cadaverico si diffuse per tutto il suo volto....

Papà Duport gli si avvicinò e gli disse:

«Che avete? cessate per carità, voi soffrite, voi siete pallido come un cadavere».

«È nulla, disse Riccardo sorridendo d’un sorriso spaventevole, ora vedrete».

E volle ricominciare, ma le sue braccia avevano smarrita ogni coscienza della loro forza e ogni facoltà di governarla; egli percosse sì violentemente sulla tastiera, che molte corde si infransero e si arricciarono scivolando sulle altre con uno stridio prolungato e terribile. In quel momento parve a Riccardo che la fanciulla si curvasse presso di lui e gli mormorasse all’orecchio: «tu mi amerai anche dopo la mia morte, tu mi amerai per tutta la tua vita».

Egli gettò un grido e svenne. Trasportato nella sua stanza nuziale, gli furono prodigate tutte le cure che la scienza e l’affetto potevano suggerire alla desolata famiglia di Duport.... ma fu indarno che si tentò di richiamarlo alla vita.

Riccardo Waitzen era morto di sincope.

[113]

BOUVARD

Arn... with all deformity’s dull, deadly

Discouraging weight upon me, like a mountain,

In feeling, on my heart as on my shoulders

A hateful and un sightly mole-hill to

The eyes of happier men.....

ByronThe deformed trasformed

Bouvard! Chi era Bouvard?

Forse taluno de’ miei lettori tenterà ancora, non indarno, di far rivivere nel suo cuore le memorie vaghe e lontane che vanno annesse a quel nome; forse ricorderà tuttavia una storia misteriosa che ha per lungo tratto agitato le giovani fantasie di quei tempi, e ricevuto da tutte le anime sensibili un omaggio di pietà e di affetto.

[114]

Io stesso mi arrovello di richiamarmi alla mente le circostanze di questo racconto pietoso, come le memorie lontane dell’infanzia, come le visioni fantastiche di un sogno: — bello e fuggevole com’esso, severo e malinconico come tutto ciò che ha creato il sentimento e l’amore.

Vi furono alcune vite che la natura aveva destinate alla pubblicità, alcune intelligenze che il cielo voleva collocate nella luce per dirigervi le masse come ad un faro luminoso, e tuttavia quelle vite si spensero ignorate nel mistero, quelle intelligenze si consumarono sdegnose nelle tenebre. — Esistono due forze nella natura? — la forza positiva che crea e predestina, e la forza negativa che reagisce e distrugge? Domandatelo all’uomo, domandatelo al segreto della sua vita intima, domandatelo al genio sventurato!

Bouvard fu un genio sventurato. Il suo nome tramontò così rapido come l’astro precoce della sera; la sua vita fu il passaggio di una meteora abbagliante che si spegne a metà della sua curva, e s’invola agli occhi meravigliati che la mirarono.

Io non tesserò qui un racconto immaginato: scriverò la storia di un uomo che ha sofferto, la storia di una vita la cui azione si concentrò tutta nel dolore, la cui catastrofe ha colmato di orrore e di pietà tutti gli animi generosi che la conobbero. — Scrivo [115] per me stesso, scrivo per dare alle memorie della mia gioventù la durata della mia esistenza, per riserbarmi negli anni dell’aridità il conforto ineffabile delle lagrime.

Chi non ha visitato il paese della Savoja, il suo suolo a sbalzi le sue valli ripiene di nebbie e le sue montagne di pini e di granito, non conosce quel punto della Terra dove la natura ha riposto il segreto della sua malinconia. Sulle montagne di Crest-Voland gli uccelli hanno una voce più dolce, il rigogolo canta nelle siepi con delle note tristissime, e vi ha in tutto il territorio dello Ciablese una specie di reattino, il cui grido appena sensibile si assomiglia al lamento di un moribondo. Lungo i ciglioni delle montagne, le rive tapezzate di viole bianche che la superstizione ha collocato tra i fiori di cimitero, spiccano, come nastri candidi ondeggianti, su quel verde cupo delle eriche, ove delle folate di farfalle grigie aleggiano intorno a quei cespugli a migliaia.

Bouvard nacque in quel luogo, nacque in una capanna: — suo padre suonava la gironda e faceva ballare una marmotta nera della valle di Champagneux. Fu un triste acquisto quello che la famiglia di Bouvard aveva fatto colla nascita di questo fanciullo: in fatto egli era rachitico e infermiccio; la deformità lo aveva segnato [116] colle sue tracce ributtanti, e non gli aveva lasciato nulla di regolare, nulla di attraente nel viso, nulla di vago nell’occhio e nella voce: — parea che la natura lo avesse per metà ripudiato non consentendogli che la pura fruizione della vita.

A sette anni Bouvard cominciò ad avvedersi della derisione che gli fruttava la sua deformità, e si sentì trafitto nel cuore, immaginando e indovinando forse il destino di tutta la sua esistenza. Le prime avversità dell’infanzia lo fecero inclinare alla meditazione e all’isolamento; e forse dovette a questa sventura precoce lo sviluppo straordinario della sua sensibilità, fors’anche il suo genio medesimo; — chè, se il dolore crea o modifica i grandi ingegni (e la sventura nei sommi è causa e non accidente od effetto) la sua azione debb’essere più efficace nei primi anni della vita, quando la società non ci ha ancora armato il cuore di punte per schermircene e lo spirito vergine e puro ritiene le impronte incancellabili della natura.

Egli era costretto a separarsi da’ suoi compagni, e si assideva la sera lungo le rive dell’Isere a veder scorrere le acque e tramontare il sole dietro la foresta di Gresy.

«Com’è bello il sole! — aveva detto una volta a sè stesso Bouvard, — come sono belle queste farfalle e questi uccelli che fanno qui il loro nido! — Ecco un magnifico [117] fiore di giglio; quale precisione in tutte le sue parti, quale esattezza nella disposizione delle sue foglie, quale flessibilità meravigliosa nel suo stelo!» — E nel chinarsi a raccoglierlo, aveva intraveduto la sua immagine nella superficie trasparente del fiume, — la sua immagine brutta, laida, ributtante.... Bouvard sedette sopra la riva e pianse lungamente con abbandono. Egli avrebbe almeno desiderato un cuore, cui confidare il segreto delle sue prime sofferenze; e forse la tenerezza melanconica di sua madre aveva compreso quanto tesoro di affetti si rinchiudesse nell’animo delicato di quel fanciullo, forse nella madre avrebbe trovato un’amica, ma quell’amica doveva essergli presto rapita; — a dieci anni Bouvard era rimasto solo nel mondo.

Un giorno suo padre gli aveva detto: — mio caro figliuolo, tu hai dieci anni compiuti, e quantunque tu sia alquanto malaticcio e la tua figura non sia per verità delle migliori, le tue forze sono ora abbastanza sviluppate, e puoi bastare, d’ora in avanti, a te stesso: — io conto di andare nella Francia, ed è tempo che noi ci separiamo; prenditi la mia marmotta e la mia gironda, è assai più di quello che io potrei darti, ma il cielo compenserà almeno colla tua fortuna il sacrificio generoso di tuo padre.

Bouvard prese la via di Bonneville e dormì la prima notte in un canneto lungo [118] la riva del torrente. Era una bella notte di agosto, egli non aveva veduto mai tante stelle, nè inteso così bene quel rumorìo che fanno le locuste nelle stoppie, e quei mille suoni soavi e ineffabili che producono le foglie in una notte serena di estate. Parve a Bouvard di sentire in sè stesso qualche cosa di inusitato: — egli non aveva sonno, egli non aveva paura, non stanchezza, non disagio, si sentiva calmo e tranquillo — un sentimento infinito di benessere gl’infondeva per tutte le fibre una dolcezza non mai provata fino allora: — era pensieroso ad un tempo e sereno.

— Sentiamo, diss’egli, è ben questo un grillo che canta; — perchè canta egli questo grillo?.... e che cosa fanno lassù tutti quei luminari che il buon Dio accende tutte le sere?... e queste piante?... e questo usignuolo che sento gorgheggiare da lontano? — In verità, io non avevo mai osservato che ci fossero tante belle cose nel cielo, e che i grili cantassero di notte così dolcemente. Oh! egli deve essere pur buono il Signore se ha creato tante cose meravigliose.

Bouvard cadde in una profonda meditazione; — egli pensò a sua madre e alla sua capanna, e a quel mondo sconosciuto nel quale stava per entrare così fanciullo: — a poco a poco i suoi sensi si assopirono, — egli porse attenzione a tutta quell’armonia malinconica che blandiva il suo [119] orecchio come la nenia d’un bambino, — a quel fremito degli steli, — a quel susurro degli insetti, — a quel lamento delle acque, — alla voce del vento e delle foglie: la sua anima acquistava una strana sensibilità, il suo udito una potenza di sensazione ineffabile: — egli distinse le note più delicate, i tuoni più melodiosi, le cadenze più dolci; e gli parve d’aver indovinato il segreto della grande musica della natura. Egli prese la sua gironda e suonò una vecchia aria lamentevole che aveva ascoltata un tempo da suo padre: — non vi era nulla di più semplice di quella musica, nulla di più monotomo di quel suono; ma pure egli vi trovò tanta dolcezza che i suoi occhi si riempirono di lacrime, e quando ebbe finito, si avvide che stava inginocchiato pregando.

Fu una grande rivelazione quella che la natura aveva fatto in quel momento a Bouvard: egli aveva compreso di essere artista; per una potenza straordinaria di intuizione, egli aveva presvelato il mistero di tutta una vita. — Una fiducia illimitata di sè stesso, un’avidità irresistibile dell’avvenire agitarono da quell’istante il suo cuore: — egli si sentiva superbo di sè, superbo della sua arte divina, egli comprendeva bene che non aveva ancor nulla conseguito, ma che avrebbe tutto conseguito col tempo.

Bouvard si addormentò che era assai tardi, e sognò degli angeli e dei fiori, la [120] sua capanna e le sue montagne, le rondini bianche dell’Isere, e le sue rive fiorite di ranuncoli... egli sognava ancora, quando si sentì battere sulle spalle, e nello svegliarsi vide due uomini seduti presso di lui, e di cui uno era intento a guardarlo.

— Piccino mio, gli disse costui che pareva il più anziano, tu stai, a quanto mi pare, guadagnando male il tuo pane con questa brutta marmotta e con questo cattivo strumento, e sei pur molto giovane per andartene così solo nel mondo: io ti darò bene un compagno, — eccoti qui il mio amico Jeanin dal quale devo separarmi oggi stesso; egli è una persona di distinzione e non ha che un piccolo difetto, una menda di nessuna importanza per l’arte sua: è cieco da tutti e due gli occhi, ma ci vede bene colla mente, e ci sente meglio colle orecchie, che non è già uno stordito il mio amico Jeanin, e ti farà toccare delle buone monete col suo violino. Veramente il tuo viso non mi fa troppo l’elogio di tua madre, ma tu hai l’aria di un buon fanciullo, e il cielo ti sarà grato se farai una buona compagnia al mio amico. Suvvia, sciogli subito il laccio a questa tua marmotta scodata, chè non va bene il tentare la tua fortuna con questa patente di povertà, — porgi la mano al tuo compagno, e vattene alla buon’ora, chè io devo trovarmi per mezzo giorno sulla via di Villaz, lungo il canale.

[121]

Bouvard considerò questo avvenimento come un favore straordinario della fortuna, e gli parve pure che vi fosse qualche cosa di dolce nella missione di carità e di amore che il cielo pareva affidargli coll’alleanza inaspettata di quel cieco.

Egli non si era ingannato.

Sette anni dopo, si leggeva sui giornali di Ginevra:

«Bouvard il celebre suonatore di violino, darà questa sera un’accademia musicale nel nostro teatro. L’ingegno straordinario di questo giovane artista, e la fama universale che le precede, ci esimono dall’aggiungere per lui alcuna parola di elogio e di raccomandazione.»

***

Rivediamo ora Bouvard nella seconda fase della sua vita, — Bouvard, non più il piccolo savoiardo, — ma l’uomo di mondo il giovane elegante, l’artista straordinario.

Quali saranno ora le sue passioni, il suo cuore?

Il lago di Lemano giace calmo e tranquillo; il cielo è sereno e stellato, e la luna si riflette nelle sue onde. È una di quelle notti di silenzio, e di amore, in cui tutto ciò che vi ha nel creato si agita e vive di questo sentimento. Che dice il susurro del vento che increspa leggermente le acque? che dicono le acque al vento? — Perchè [122] le migliaja di foglie di quell’albero tremolano mormorando tra di loro? La goccia di rugiada che discende dal cielo a collocarsi nel calice vagheggiato del fiore, per quale attrazione ha saputo percorrere la sua via verso di lui, nel vasto universo che l’ha creata? Porgiamo attenzione a questo linguaggio degli enti sconosciuto agli umani. Noi v’intendiamo il bisbiglio dell’insetto che compie le sue nozze fra i petali profumati della rosa; — il ronzio della farfalla notturna che aleggia intorno alla sua compagna nel suo nido di foglie e di seta; — la voce dello zeffiro che prepara la fecondazione misteriosa de’ fiori; — il fremito delle alghe che si curvano ad accarezzare le onde fuggevoli del torrente; — il linguaggio segreto delle stelle, — il mormorio degli steli e delle gemme, — i baci delle fronde, — i numeri infiniti che svelano nella natura il sentimento universale e prepotente della vita, l’amore.

Ma quanti sono tra gli uomini che intendano questo linguaggio? E non è l’uomo tra tutte le creature la sola che abbia spesso prostituito l’amore e sagrificato sull’altare dell’egoismo questo celeste sentimento? Non chiedete all’uomo dell’amore, non gliene domandate che un’ombra, — un’ardita apparenza che finge, che asserisce, che giura.... Vi fu un tempo in cui gli uomini si amavano, prima che la [123] famiglia, fanciulla vergine e pura, toltasi dalle foreste e dalle capanne per venirne a nozze colla società, non s’incontrasse per via coll’oro, garzone petulante e avventuriere che le fece violenza; e da quello sconcio nacque l’egoismo, mostro scellerato e insaziabile, che divora gli affetti nati da lui stesso, come Saturno divorava un tempo i suoi figliuoli.

Pure, a quella guisa che vediamo tra le cento braccia inaridite d’un albero fulminato, sopravvivere talora un ramo solo e rivestirsi di fiori così leggiadri, che mai quell’albero ne aveva dato di tali nella pienezza della sua gioventù e della sua primavera: non altrimenti l’amore sbandito dal seno dell’umanità, si è rifuggito nel petto di pochi uomini che lo custodirono nel segreto del loro cuore. — Domandate a costoro come si ami, — cosa si speri dall’amore, — domandate loro se si può amare impunemente. — Oh! la gioventù è severa, e la società non lo è meno nelle sue leggi.... evitate dunque la lotta, insozzate la vostra anima, e gettatele ai piedi la vostra corona di rose, prima che essa ve la strappi dal capo per collocarvi il suo serto di spine e di cipresso.

Sulla superficie tranquilla del lago si culla leggermente una barca abbandonata, — i due remi che le pendono dai fianchi imprimono nelle onde due solchi paralleli d’argento che si riempiono, e si rinnovano [124] senza sparire e senza lasciare alcuna traccia di sè, — emblema della vita. — Perocchè, chi crede che l’avvenire esista? chi crede che esista il passato? Il presente soltanto esiste, ed è quel punto impercettibile che li riunisce: il tempo è una catena che si snoda dall’abisso del futuro, e si riaccoglie nella voragine del passato. Ma forse la parte che sparve tornerà a ricomparire? — il serpente che si morde la coda. — Chi sa se il tempo trascorso non ritorni colle sue circostanze di luoghi e di avvenimenti? Le leggi che governano le evoluzioni degli astri e dei mondi, perchè non governeranno altresì le evoluzioni del tempo? Tutto parte da un solo principio di vita: piccoli mondi in un gran mondo, piccole esistenze in una grande esistenza... oh, sì, — il tempo ritorna, o l’eternità non sarebbe che un vaneggiamento dei mortali. — E puossi concepire l’idea dell’eternità ove vi ha qualche cosa che muore?

Forse sono tali i pensieri che agitano la mente di Bouvard seduto con abbandono nella sua barca. — Bouvard così giovane, incomincia a provar quella malattia di cuore che nasce dalle speranze deluse, e che si alimenta nella solitudine degli affetti.

Le prime pagine del libro della vita contengono racconti deliziosi, profezie e presagi di felicità senza fine, ma le pagine di mezzo [125] ne preparano al disinganno, le ultime alla rassegnazione; e spesso si butta il libro, e non si vive che delle memorie di ciò che si lesse. Bouvard ha fatto ciò che tutti gli infelici hanno fatto: — ha divorato le prime pagine con isdegno, ed ora si riposa sconsolato a mezzo del libro. Ma egli non le lesse, no, quelle pagine, le ha indovinate: — egli non ha accelerato il suo disinganno, ma lo ha prevenuto, — egli non ha trovato nei piaceri dell’esistenza che una prostituzione indegna della nostra natura, un mondo fittizio che ci sfugge, e pure ci accarezza, una menzogna che ci degrada e pure ci alimenta... Quale è infatti l’epoca della vita che si rimpiange? Quali i giorni in cui osammo chiamarci felici? La gioventù.... E pure l’età che l’ha seguita ce ne ha fatto conoscere gli errori, ci ha snudato quel mondo apparente e menzognero de’ suoi colori fatui e abbaglianti, ci ha mostrato la vanità di quelle passioni, la piccolezza di quelle gioje, la nullità di quei piaceri, il ridicolo di quelle aspirazioni, la sorgente crudele di quei sogni, che ci promettevano godimenti infiniti nella vita virile. Ma se noi abbiamo conosciuto quell’inganno a profitto della verità, perchè oseremo rammaricarne?

Certo una condanna crudele pesa tuttavia sui nostri capi: — ovunque l’albero della scienza dilata i suoi rami, e alletta gli uomini a raccoglierne i frutti proibiti, sembra rinnovarsi [126] la sentenza terribile che il cielo fulminò sui nostri padri: ogni passo che l’umanità ha fatto finora sulla via della verità e del progresso, ha segnato un punto di allontanamento dalla via della sua felicità e del suo perfezionamento morale. Avviene dell’individuo ciò che avviene delle nazioni, avviene delle vite parziali ciò che avviene dell’esistenza delle masse. La gioventù sfugge colle sue gioie a quegli uomini, cui uno sviluppo precoce dell’intelligenza e l’abitudine fatale della meditazione hanno svelato troppo presto la grande nullità della vita, e insegnato che la verità è un fantasma nudo, che la nostra sola avidità di raggiungerlo lo riveste di colori abbaglianti e di forme celesti, e che non le rimane che un solo conforto disperato, — quello che ritrae da sè stessa.

Bouvard non ha che diciannove anni, e già ha trasvolato collo sguardo su tutto l’oceano tempestoso dell’esistenza: — egli vi scorge la gloria, la fama, l’agiatezza, la vita elegante e fragorosa, tutte onde clementi che sembrano assicurargli un posto tranquillo e sicuro; ma non è là ch’egli desidera di riposarsi, egli vaneggia un altro lido lontano e insperato.... oserà egli nominarlo? oserà dirlo a sè stesso? Bouvard desidera un affetto, un affetto ardente come la sua anima, com’esso infinito, un amore di cui saziarsi o morire.

[127]

Egli era nato per amare. — Vi sono delle vite che non furono mai che una rivelazione continua, incessante di questo sentimento. — Bouvard aveva amato prima sua madre, e con essa la sua capanna, i fiori e gli uccelli delle sue montagne, poi la sua marmotta da cui si era diviso con delle lacrime, poi il suo cieco compagno e i poveri villaggi della Savoja che aveva percorso con esso.

Egli è a lui sopratutto, che aveva rivolto per molti anni le sue cure pietose e il suo affetto. Quel vecchio gli aveva tenuto luogo di un mondo: — vi aveva trovato la severa tenerezza del padre, e la confidente espansione dell’amico. Il povero Jeanin era stato un tempo un artista conosciuto, poi amareggiato dal livore dei cattivi, poi ingratamente obliato, e aveva voluto fare di Bouvard un allievo destinato a rivendicare il suo genio. Egli è altresì a quell’esempio che il giovinetto aveva piegato il suo cuore ad una tenerezza infinita, ad una sensibilità senza conforto, ad una generosità d’animo troppo grande e troppo spesso vilipesa dagli uomini. Nelle loro peregrinazioni per quelle campagne essi amavano talora di dormire nelle notti d’estate a cielo scoperto, e d’inspirarsi alla musica della natura; — e se entravano qualche volta nei villaggi, non era che per farvi intendere quell’armonia che ne avevano attinta, come un’emanazione improvvisa [128] del loro genio, come un tributo dovuto a quegli uomini che li soccorrevano nei bisogni della loro vita materiale. Compiuta la loro missione, essi ritornavano ai loro campi, — e spesso Bouvard conduceva il suo compagno ad assidersi lungo le rive dei torrenti, o in quei seni remoti delle valli dove il vento agita continuamente le grandi foglie di cerri, e dove erano molti usignuoli che cantavano nelle notti serene fino al mattino.

«Vedi tu il sole? — gli domandava il vecchio qualche volta, — è egli ancora così luminoso, come quando io lo vedeva nella mia fanciullezza? Dammi la tua mano lascia ch’io tocchi il tuo viso e i tuoi capelli; che io senta se le tue fattezze sono quali erano pure le mie in quel tempo».

Fanciullo com’era, Bouvard dormiva la notte profondamente, e spesso nel suo sonno l’udiva discorrere con sè stesso, o pregare. Una notte l’intese suonare così dolcemente, che mai il giovane aveva udita una musica così sublime: egli pensò che uno di quegli angeli di cui gli aveva parlato una volta sua madre, fosse disceso ad apprendergli quell’armonia che si doveva sentire soltanto nel cielo: — poi l’udì gemere e mormorare alcune preghiere, poi non udì più nulla — Si destò al mattino ch’egli dormiva ancora; — attese che si destasse, indugiando egli, lo scosse..... era morto! [129] Bouvard pianse alcuni giorni, poi lo seppellì assieme col suo violino, sotto tre grandi alberi che crescevano lì presso, lungo un torrente che metteva nel Rodano perchè, avendogli egli detto che era del paese di Montelimart, pensò che le acque ne avrebbero col tempo restituito il cadavere alla patria.

Fu un nuovo avvenire quello che si aperse allora al suo sguardo; quantunque modesta, Bouvard aveva la coscenza del suo genio, egli sentiva di essere artista, sentiva di poter dare saggio di sè in ben altri luoghi che non fossero quei poveri villaggi della Savoia. La speranza di rinvenire suo padre bagattelliere girovago nella Francia, lo trasse quasi suo malgrado a quel paese. Entrò nel territorio della Saona, suonò la prima volta a Bourg, poi a Macon, a Moulins, a Never; riscosse ovunque degli applausi, ovunque destò l’ammirazione la più insperata, a Melun gli furono gettate delle corone, e poichè egli si trovava così vicino a Parigi, entrò in quella città, allettato da quella vita fragorosa e felice nella quale anelava di lanciarsi.

Vi passò quattro anni; — il piccolo savojardo, il povero suonatore di gironda, era divenuto un giovane elegante, un artista ricercato, l’elemento morale di quelle grandi riunioni: l’eletta società si contendeva Bouvard come il genio vivente dell’arte, come una di quelle grandi individualità della [130] scienza, di cui si ambisce la predilezione e la stima.

Fu in quei grandi centri che egli aveva studiato gli uomini e più di loro sè stesso. Egli avea bene veduto dovunque delle mani sporte a stringere le sue, dovunque aveva ascoltato delle parole di omaggio, egli s’era accostato alle labbra il veleno melato dell’adulazione; ma di quell’esistenza fittizia pareva sdegnarsi la sua anima, e quando volle un cuore, un cuore soltanto, conobbe che vi era un deserto intorno a lui, che l’amicizia rifuggiva da quella vita apparente e simulata, e che la sua deformità lo condannava all’isolamento dell’amore.

Vi furono in tutti i tempi delle donne che sacrificarono la loro fama alla bellezza disgiunta dal genio — nessuna che la sacrificasse al genio disgiunto dalla bellezza. La donna, questa quintessenza di polvere la più perfetta tra le opere della creazione, non nasconde spesso sotto la maschera irritabile del pudore che le traccie più delicate della sensualità. Nelle passioni di amore, l’uomo è quasi sempre guidato nella sua scelta dalla virtù, la donna non lo è mai che dall’avvenenza. Nessuna di loro ha confortato del suo affetto di amante la vita di qualche grande sventurato: una tomba recente, — la tomba dell’infelice Leopardi, — accusa in faccia all’umanità l’egoismo sensuale della donna.

[131]

Bouvard si avvide troppo presto che egli non poteva sperare dell’amore, e conobbe ad un tempo che questo bisogno si era talmente inviscerato nella sua natura, che non avrebbe potuto attutirlo che colla morte. Sdegnato di quella vita apata e clamorosa ove tutto si tributava all’apparenza, pensò che la solitudine lo avrebbe collocato in maggiore armonia con sè stesso, pensò che aveva ancora qualche cosa ad amare, le sue memorie. Egli era quasi ricco; diede un addio alla vita pubblica, partì inavvertito e venne pellegrinando alle sue montagne. Ma quivi pure gli erano riserbate delle disillusioni inattese: tutto era mutato nel campestre teatro della sua infanzia; le nevi disciolte avevano fatto scoscendere qua e là gran parte di quelle rupi; i montanari avevano recisa una foresta prediletta di pini dove veniva a riposarsi nei giorni canicolari dell’agosto, poche pietre rimanevano della sua capanna ove le lucertole verdi guizzavano ai raggi del sole, — e come venne alla tomba del suo amico, trovò che il terreno smosso e inumidito dalle acque, era tutto fiorito di quei ciclamini vermigli che crescono sulle montagne, e ne raccolse alcuni che portò seco per tutta la vita, come l’unica reliquia sopravvissuta al naufragio della sua felicità e della sua giovinezza.

Fu su quella tomba che egli compose le più belle melodie che mai il genio della [132] musica avesse saputo inspirare, come un tributo alla santa memoria dovuta di quell’uomo che gli aveva appresi i primi erudimenti dell’arte, svelati i misteri più sublimi dell’armonia.

Ma come nessun uomo è capace di rimanere lungamente infelice, Bouvard pensò che il soggiorno d’una grande città lo avrebbe distolto dalle sue meditazioni sconfortanti, e quasi stordito e calmato nel suo dolore. La fama della Nuova Eloisa, — il più bel libro d’amore che mai sia stato scritto, — era ancora diffusa e fiorente tra la gioventù appassionata di quei tempi; egli aveva divorato quelle pagine con una specie di febbre e di delirio; la vita del grande socialista si approssimava allora al suo tramonto, splendido e maestoso come uno di quegli astri che si circondano di maggior luce prima d’involarsi alla vista degli uomini. — Bouvard volle baciare quelle zolle che avevano data la vita a Gian Giacomo, e venne a Ginevra.

Ecco come noi lo rivediamo in quella città, nel silenzio di una notte stellata, solo, abbandonato sopra una barca in mezzo alle onde tranquille del Lemano. Che fa? Che medita il giovane in quell’istante?

Vi sono dei periodi di effervescenza nello sviluppo dello spirito umano, in cui l’anima si sublima, e si eleva ad una grandezza smisurata non concepibile che a sè sola. Che è la parola perchè si attenti a manifestare [133] quegli slanci? Non sono che le piccole passioni, le sensazioni inerenti alla materia quelle che la parola può esprimere: ma ciascun uomo ha in sè qualche cosa che non rivela, che non può rivelare; ciascun uomo è più grande di quanto lo appaia, di quanto forse lo creda egli stesso. E che è ciò che noi chiamiamo genio, se non la facoltà di concepire e di estrinsecare, con quanta maggior verità è possibile, questa vita profondamente intima e spirituale dell’uomo?

Bouvard guarda le stelle, il cielo, la superficie immobile del lago, i salici che si curvano sulle rive, i pesci che guizzano inseguendosi, gli acari fosforescenti che scintillano nelle onde commosse dai remi; e da questo spettacolo svariato attinge delle idee che egli sente, che egli comprende, ma che non, saprebbe pure manifestare a sè stesso. È il linguaggio arcano che vi ha tra noi e la natura, e che Iddio non ha concesso all’uomo di esprimere.

Ma gli occhi del giovine si rivolgono con insistenza a quei lumi lontani che appaiono sulle rive come tante scolte immobili nella notte, a quelle ville disseminate lungo la spiaggia, a quelle finestre socchiuse e illuminate che nascondono mille misteri di felicità e di amore. Sotto ciascuno di quei tetti vi ha una famiglia, vi hanno dei cuori che si amano, che sperano, che gioiscono, la cui esistenza non è tutta [134] tessuta di dolore... Oh! sentirsi nati ad amare, possedere un cuore capace di amare un universo, e cercare indarno in questo deserto della vita qualche cosa che risponda a questo appello incessante dell’anima! — sempre indarno! — eternamente indarno! Bellezza, crudele bellezza! — perchè fu concesso a te sola l’impero assoluto dell’amore? perchè sei tu l’unica rivelazione, l’unica forma sensibile di questo sentimento? — Perchè, esclama Bouvard, — perchè rinchiudere la mia anima in questa creazione abortita dalla natura? Perchè darmi questo profilo di Etiope, questo naso da Ottentotto, e questa bocca di Lappone? Poteva la deformità rivestirmi di spoglie più ributtanti? Oh la terribile condanna che associa al bello morale il brutto sensibile, e lo destina a rivelarlo!

Dopo quella notte Bouvard si ammalò, risanò a stento, partì improvvisamente da Ginevra e venne pellegrinando in Italia.


Vi passò tre anni: fu a Venezia, a Roma, a Firenze, e finalmente sostò a Napoli, dove ricco di fama e di danaro, aveva determinato compiere la sua carriera di artista nel mistero e nell’isolamento.

La più grande disillusione e la più inattesa lo aveva colpito in quegli ultimi anni del suo trionfo: — egli si era sdegnato della sua arte. A che crearsi con essa un mondo ideale e fantastico che la società gli contendeva [135] di raggiungere? a che accarezzare i suoi inganni, palliare la sua sventura, eccitare la sua sensibilità, se gli era nota la vanità di questi rimedii, e se l’orgoglio suo gl’imponeva con insistenza di rifuggirne? A che profondere quei tesori di armonie, quelle esuberanze dell’arte, ad una folla spensierata che lo copriva di oro, che lo acclamava artista divino, ma a cui avrebbe chiesto indarno un solo di quegli affetti che egli aveva eccitato con tanta potenza nei loro cuori? Essi avevano ammirato in lui l’artista, non l’uomo, — il genio, non il delicato sentire che l’accompagna, non l’ineffabile martirio che lo sconta. — Il giovine si sentì prostrato, si sentì invaso da uno scoraggiamento che indarno avrebbe tentato di superare: — vivere per sè stesso e a sè stesso; — obliare, — odiare anche — fors’anche odiare; giacchè l’odio può ben contendere la sua voluttà a quella dell’amore: — ecco l’estrema risoluzione di Bouvard, ecco il conforto disperato che si riprometteva da questo disegno.

Si ritrasse allora in una villa remota presso Posilipo, e visse lungo tempo ignorato. Forse l’oblìo avrebbe cancellato per sempre il suo nome dalle pagine della fama, se un avvenimento misterioso non ve lo avesse segnato con caratteri indelebili, se una catastrofe di terrore non avesse rischiarato d’una luce fosca e spaventevole il tramonto precoce della sua vita.

[136]

Bouvard aveva venticinque anni e non aveva amato; aveva bensì desiderato di amare, — aveva vagheggiato un affetto di donna come si vagheggia l’affetto ideale di un angelo, — lo aveva chiesto al cielo come un forsennato, avrebbe accettato una intera e lunga esistenza di spasimo per un breve e fuggevole momento di amore. Oh! a venticinque anni, l’amore non è più una vaga aspirazione, non è più quel sentimento variabile, indeciso, estesissimo che si sviluppa nella prima giovinezza, ma è una nuova sensazione che si comunica a tutto il nostro essere, che riassume tutte le fila spirituali e fisiche della nostra esistenza. La vita, quale fu concessa agli uomini, sta nel giusto equilibrio dello spirito e della materia, e l’amore vero e potente si libra con essi senza propendere: ogni affetto che sfugge a queste leggi si oppone alle leggi della natura. — Egli è a venticinque anni che si ama la donna, a quindici non si è amato che l’amore.

Ma se l’anima di Bouvard era delicata e sensibile, era pure ad un tempo severa. Se egli non poteva disconoscere la propria deformità, non disconosceva però l’elevatezza del suo spirito e della sua mente: un affetto comune era un affetto indegno di lui; egli si sarebbe consumato nella tremenda solitudine delle passioni, anzichè accettare l’amore di una donna che non avesse saputo comprendere quanti tesori [137] di poesia e di affetti si celassero nel suo cuore lacerato.

Allo sguardo di chi ama, la virtù non si rivela che nella bellezza. Il bello ed il buono sembrano partecipare della stessa natura, accoppiarsi e manifestarsi a vicenda — si direbbe che il buono è il bello morale, che il bello è il buono sensibile. Bouvard stesso si era ingannato come tutti gli uomini fanno: — egli non aveva conosciuto come una forza inesplicabile li tenga spesso disgiunti, e come questa fatale contraddizione si riveli distinta e frequente più che mai nella vacua natura della donna. Per quanto poco si abbia vissuto nella società, o attinto leggieri erudimenti dall’esperienza, si avrà osservato che le favolose bellezze di ogni tempo si segnalarono per difetto di merito morale, spesso ancora per malvagità di cuore o per vizio sfrenato: — sono le bellezze mediocri quelle che annoverano i migliori caratteri di donna e i più dolci, e forse perchè il loro numero è più diffuso; ma la deformità sfugge da questi limiti, e accenna quasi sempre a bontà estrema o a malvagità estrema. Bouvard, volendo cercare una virtù, cercava una bellezza, e la rinvenne.

In una sera d’autunno egli sedeva lungo la riva del mare, in uno di quei piccoli seni deliziosi che formano qua e là le acque incavando le rupi che le cingono, e contemplava il tramonto del sole dietro le [138] scogliere addentellate di Lacco, quando una barca venne a passare all’improvviso rasente la spiaggia. Una donna attempata sedeva a prora leggendo, e poco lungi da lei, una giovane bellissima stava silenziosa meditando, cogli occhi rivolti al cielo in atto di abbandono e di rapimento, mentre una mano che cadevale giù come morta pel fianco della barca, sfiorava colle dita bianchissime le onde che la cingevano come d’un mobile smaniglio di perle e di argento. Una vela candidissima gonfia dal vento, quella luce di paradiso che si riflette dal sole nelle onde nell’ora del tramonto, e che le onde riversano a torrenti sulle rive, componevano il fondo di quel quadro maraviglioso, che passò e sparve dinanzi agli occhi del giovine, come una creazione istantanea della sua fantasia, come la celeste visione di un sogno. — Quella donna non aveva veduto Bouvard, ma lo aveva guardato, — lo aveva lungamente guardato; — i suoi occhi fissi ed immobili parevano versare in lui quei sentimenti che forse nasceano dal pensiero di un essere lontano ed amato, — parevano dirigergli quelle aspirazioni che erano tutte pel cielo e che la fanciulla avrebbe indarno tentato di rivelare alla terra.

Bouvard sapeva di non poter essere amato, ma troppo grande era ancora in lui la fede del sacrificio nella donna, perchè non credesse di poterlo essere per compassione. [139] Una seduzione credeva egli esistere in lui, quella della sventura, ed egli vi attribuiva l’onnipotenza della bellezza. No, egli non è vero che l’amore inspirato dalla compassione possa generare l’avvilimento in chi lo riceve: ella è la più orgogliosa, la più nobile e la più durevole delle passioni, forse l’unica che il cielo benedice, e che non si spegne che colla vita, perchè soltanto colla vita si spegne la sventura che l’ha generata.

Bouvard attribuì a sè quello sguardo. «Ella mi ama, egli disse, ella ha indovinato che io soffro. E potrebbe egli, quel viso di angelo, mentire un sentimento che non fosse di pietà e di tenerezza? Potrebbe ella amare un felice?... la felicità petulante, scherzevole, menzognera!»... E poi egli aveva veduto altre volte quella donna, l’aveva veduta ne’ suoi sogni, ogni notte, da diciasette anni: — era il genio fantastico della sua arte, la creazione severa della sua musica, l’ente concretizzato, vivo, sensibile, palpitante, che egli si era composto nell’estasi delle sue melodie e delle sue meditazioni.

E invero ciascuno di noi si crea fino dai primi anni della vita l’ideale della donna che vorrebbe amare, ciascuno di noi crede che esista un’anima sorella, le cui sembianze, le cui aspirazioni ci sono note, e verso la quale ci sentiamo attratti, nostro malgrado, per tutta la vita. Quell’amore [140] che si strugge da sè senza posarsi, non è che l’incognita attrazione di un essere che la lontananza, che la società e la fortuna ci contendono; e spesso si vaga di amore in amore senza raggiungerlo, sempre ansiosi e sempre insoddisfatti, amanti sempre, e senza mai amare, portando seco fino alla tomba quel vuoto tremendo che i mille affetti passeggieri dell’esistenza non hanno avuto potere di riempiere.

Quando Bouvard si avvide della sua passione, provò come uno sbigottimento, come una voluttà che sentiva del dolore, come una nuova intuizione della vita, a cui si accoppiava il presagio lontano di quelle sventure che il cielo gli aveva destinate con quell’affetto. Quella donna era sparita: l’avrebbe egli riveduta? E dove? E quando? E rivedendola, si sarebbe ella risovvenuta di lui? l’avrebbe amato? Quell’intervallo di tempo non avrebbe modificato il sentimento di pietà e di amore che il giovine aveva creduto di leggere nei di lei occhi?

Oh! quell’istante in cui l’amore si rivela per la prima volta ad un’anima, è il momento più solenne della vita. E qual’è quell’uomo che può averlo dimenticato? Per quanto numerose sieno state le nostre passioni, per quanto indegne di noi, nessuno potrà mai obliare quell’istante in cui conobbe per la prima volta di amare. È lo svelarsi di questo sentimento che segna il principio della vita morale di ciascun uomo.

[141]

Non accenneremo ai cambiamenti avvenuti nelle abitudini e nel carattere di Bouvard dopo quel giorno. Egli passò tre mesi senza rivederla: aveva corse e ricorse tutte le vie di Napoli come un demente, era stato a tutti i teatri, aveva frequentati tutti i centri di riunioni, senza avere indizio alcuno di lei e senza quasi sperare di rinvenirla, quando un mattino la rivide in una carrozza elegante che attraversava la via di Chiaja, verso la Villa. — Bouvard non ebbe il tempo di meditare al partito più conveniente cui poteva appigliarsi per raggiungerla: — trascinato da una forza irresistibile l’insegue alla corsa,... si affatica,... resiste... le sta al paro per lungo tempo: — ma già il suo ardore si scema, — le sue forze lo abbandonano, ed egli si arresta sfinito sulla via. Passò un altro mese: — la rivide una seconda volta, e collo stesso esito, — la rivide una terza e ahimè! pure indarno; ma i suoi sforzi furono finalmente coronati: — egli giunge un giorno a seguirla fino alla sua dimora. — Egli conosce finalmente il suo soggiorno, il suo nido, quel punto invidiato della terra su cui vive una donna adorata... oh! gioia! — osa chiedere di lei: — si chiama Giulia — non ha che diciasette anni, è fanciulla, è ricca, è felice, e il suo cuore è puro come la sua anima, è libero come la luce che lo circonda.

Da quel giorno Bouvard divenne audace: ardì sperare di essere amato, ardì meditare [142] di palesarle la sua passione, e di affrettarne l’opportunità col prestigio della sua arte e della sua fama. Non andò a lungo che per esse furono superati quegli ostacoli che gli contendevano di avvicinarla, e giunse finalmente quell’istante sì ardentemente anelato, in cui avrebbe potuto inebriarsi della sua vista, e leggere con sicurezza nelle pagine ignorate del suo destino.

Giulia apparteneva ad una famiglia patrizia, presso la quale convenivano il fiore dell’aristocrazia, e le celebrità più elette nel campo dell’arte e della scienza. Fu ad una di quelle serate artistiche che Bouvard venne invitato: egli vi fu accolto con gioia, udito con trasporto, applaudito con frenetici entusiasmi... ma, oh Dio! era essa ancora quella Giulia che egli aveva veduto la prima volta dalla riva del mare nell’ora melanconica del tramonto?... quella fanciulla sì bella, sì dolce, sì compassionevole, quell’essere gentile e pensieroso che gli era apparso come una visione di cielo nelle ore tremende del suo sconforto! Colei, quell’angelo, quella fanciulla adorata, non era più che una donna comune, lieta, incurevole, folleggiante, sorridente a tutti quegli esseri fatui e leggiadri che se ne contendevano l’affetto; — una creatura della società e del piacere, ricca di gioventù e di bellezza, baldanzosa perchè felice, e felice perchè troppo insensibile, troppo esente da [143] quella infermità di mente e di cuore, che ci rende pietosi a tutti i mali della società, ovunque sieno sentiti, e ci costringe a dividerli.

Forse Bouvard non si era ingannato credendo che la fanciulla lo avesse riconosciuto, e avesse riso del suo affetto e della sua deformità. Il contegno di Giulia sentiva troppo della derisione e della noncuranza, perchè egli potesse almeno lusingarsi di non aver tradito il suo segreto... quel segreto sì dolce, sì caro, sì lungamente vagheggiato e la cui rivelazione lo opprimeva ora di rossore e di avvilimento. E infatti quel giovine che aveva inseguito come un insensato la sua carrozza, che le aveva prostituita la sua dignità e il suo orgoglio, che aveva preteso in sì strana guisa e con sì strana insistenza al suo cuore, era lì muto, umiliato, tacitamente deriso... E che era egli per Giulia?... lui... quell’artista quasi ignorato, perchè sdegnoso di ammirazione, quel povero fanciullo della Savoja, quel giovine timido, sofferente, deforme?

Bouvard comprese troppo tardi come un acciecamento fatale lo avesse lusingato di un affetto che la sua deformità gli rendeva impossibile d’inspirare. La sua deformità... essa sola, — sempre essa... quella inesorabile condanna, quella terribile distinzione, quel marchio indelebile della natura, che nè l’arte, nè il cuore, nè l’ingegno avevano [144] avuto potere di distruggere. Un orribile desiderio balenò allora attraversò alla sua mente, — il desiderio di una deformità più mostruosa, di una bruttezza sì spaventevole, che, spingendo gli uomini a rifuggirne, avesse potuto saziare in lui l’avidità ineffabile dell’odio, quella nascente avidità, che aveva già surrogato nel suo animo la prima e nobile aspirazione dell’amore.

Tale è la vicenda degli affetti, e quelli soltanto che furono miti e volgari si spengono soventi nell’apatia: ma niuna via di mezzo è concessa alle grandi passioni, e l’odio e l’amore che ne segnano i due punti culminanti, si alternano nella pienezza del loro vigore senza mescersi e senza arrestarsi. Egli è tuttora mal deciso quale sia veramente la più nobile e la più giusta di queste due passioni, poichè l’una ci viene dal cielo e l’altra dalla terra, e l’una predomina nella società e l’altra nella vita privata, ma egli è ben certo che nella maggior parte degli uomini, è l’odio soltanto che finisce per riempiere quel vuoto, che non ha potuto riempiere l’amore.

Noi non diremo che Bouvard odiasse: — la sua vita avvenire non offrì circostanze sì palesi da poterlo asserire con sicurezza; forse lo aveva solamente desiderato, e ciò è desolante nella nostra natura, che i buoni desiderino sempre indarno di diventare malvagi, e i malvagi buoni. Si muore egli dunque quali si è nati? E che è questa [145] fatale predestinazione che la nostra volontà non ha potere di distruggere? Bouvard amava ancora Giulia: — per una strana contraddizione dell’anima umana, per la potenza irresistibile che il bello esercitava sopra di lui, egli amava ancora quella fanciulla; — ma non era più la Giulia ideale, la creatura celeste, pensante, amorevole de’ suoi sogni; — egli amava una donna, una donna viva, folleggiante, voluttuosa, l’immagine palpitante della gioia e del godimento. — E perchè avrebbe egli dovuto odiarla? Per quale diritto aveva egli osato pretendere al sacrificio della sua beltà e del suo cuore? Se l’idea di tale sacrificio, se il sentimento dell’amore nobile e disinteressato, dell’affetto isolato dalla materia, possono essere concepiti sulla terra, essi non sono punto della terra, e spesso lo svelarsi di questa verità rigetta per sempre nel fango quelle anime delicate e sensibili che vi avevano una volta creduto.

La vita di Bouvard si ravvolse da quel giorno in un mistero così imperscrutabile, che noi non potremmo accennare, neppure per supposizione, ai mutamenti avvenuti nel suo spirito e nel suo cuore. Non fu che l’ultimo istante della sua esistenza, che gettò una luce incerta e tetra sul suo passato, e rannodò in qualche guisa le fila spezzate e disperse del suo destino. Ove egli abbia vissuto e in qual modo, — ove esulato, si ignora. Sparve nella pienezza [146] della sua gioventù e della sua gloria; — il suo soggiorno fu rinvenuto deserto, i suoi specchi infranti, distrutto ogni oggetto che aveva potuto riflettere a’ suoi occhi la sua immagine: — ogni traccia che egli aveva lasciata di sè, accusava l’esaltazione della sua mente, e qualche proposito irremovibile e disperato.

Noi non lo rivedremo più che nell’ultimo giorno della sua vita.

Quattro anni dopo quest’ultimo avvenimento, — in un mattino profumato di maggio, nella stagione che invita la natura all’amore, — si ornavano di gramaglie le porte di un sontuoso palazzo... Giulia, la ricca, la nobile, la leggiadra patrizia era morta, — morta alla vigilia delle sue nozze; involata alla terra da una malattia improvvisa e crudele, in tutta la pienezza de’ suoi inganni e della sua fede, in tutto il vigore della sua gioventù e della sua bellezza.

Allora da una piccola finestra di una soffitta in una casa di fronte, si affacciò una figura d’uomo, i cui lineamenti alterati dal dolore si contrassero in un sorriso amaro e terribile. — Quell’uomo era Bouvard. — Il pallore sepolcrale del suo volto, l’incolta abbondanza dei capelli e della barba, lo sguardo immobile e lucido, quell’espressione tetra e indefinibile di cui la sventura aveva velate le sue fattezze come d’un velo funerario, rivelavano il segreto [147] di quei patimenti intimi e soprannaturali che intessono quaggiù molte vite, e che rifuggono sempre dalla confidenza e dalla pubblicità, fieri e sdegnosi d’ogni umiliante compassione e d’ogni conforto impossibile. E infatti, checchè egli avesse sofferto rimase pur sempre un mistero. Amava egli ancora Giulia? Non aveala obliata in quei quattro anni di separazione? Era egli sempre vissuto presso di lei? Certo è ch’egli non abitava quella soffitta che da due mesi, e che la povertà più desolante era venuta spesso in quei giorni a visitare la sua modesta dimora d’artista.

Bouvard guardò, vide, lesse la funebre iscrizione, osservò il drappo nero che ornava le porte della fanciulla defunta, lo osservò con una muta indifferenza, senza affliggersi, senza stupirsi: — si sarebbe detto che quella sciagura non gli si palesava inattesa, che egli l’aveva preveduta, invocata, affrettata forse col desiderio. Certo il cattivo genio di cui favoleggiano gli uomini non avrebbe sorriso più tristamente, non avrebbe dimostrata una compiacenza più malvagia e crudele. Il giovine rinchiuse la finestra preoccupato da un pensiero insistente, da un’idea fissa, confortevole, lungamente blandita. «Affrettiamo, egli disse, affrettiamo il momento anelato... apparecchiamo per le mie nozze;» — e un istante dopo, gli ultimi arredi della sua soffitta, i suoi libri, la sua [148] musica, le ultime reliquie della sua fortuna erano scomparse. Bouvard aveale mutate in oro e con esso aveva acquistato dei fiori.

La stagione erane feconda. — La famiglia infinita dei giacinti, fiori di gioventù e di primavera, le prime rose simbolo dell’amore nascente, le gemme dell’arancio che intessono le corone delle fidanzate, le stelle mobili del gelsomino che simboleggiano l’amore pudico, le lavande che significano amore ardimentoso, le azzalee e le cardenie fiori di passione e di sentimento, ornarono in sì grande quantità e con tanta profusione di olezzi quell’umile soffitta del giovine, che la si sarebbe creduta una di quelle dimore favolose, dove le fate attiravano alle loro nozze la gioventù incauta e ardimentosa, destinata a perirvi in un’ebbrezza di voluttà e di profumi.

Bouvard attese con una gioia sfrenata a questa strana trasformazione della sua soffitta: — egli volle conoscere il linguaggio di ciascun fiore, volle collocarli egli stesso, alternarli con dei veli azzuri e rosati; e vi aggiunse, sorridendo tristamente, alcuni steli di ramerino fiorito che esprimono l’amore corrisposto. — Centinaia di lumi erano apparecchiati a versare torrenti di luce su quei veli e su quegli strati enormi di fiori: — e come il giovine ebbe compiuto i suoi apparecchi col più diligente [149] mistero, si compiacque di quella vista deliziosa e allettante, e disse con trasporto a sè stesso: «Ecco apparecchiata la mia camera nuziale e la mia tomba ad un tempo... la vita e la morte,... il gelo del sepolcro, e il fuoco dell’amore sì lungamente represso;... certo non fu mai stretto sulla terra un connubio più degno degli uomini, e la stessa divinità potrà forse invidiarmi le mie nozze.»

Noi domandiamo esitando: era Bouvard colpevole? Il dolore non aveva già alterato la sua ragione? quell’anima che fu un tempo sì pura, sì candida, sì generosa, poteva essersi così miseramente trasformata? poteva ella concepire nella piena lucidità della sua potenza un così orrendo progetto? Noi non lo affermiamo. La sua natura dovea certamente aver subìta una dolorosa modificazione: — la povertà, i disinganni, lo scetticismo sociale, l’isolamento dovevano, senza alcun dubbio, aver provocato in lui quella rivolta che ci trae a reagire contro la divinità e contro noi stessi, ma la sua colpa non fu certamente che la conseguenza d’uno sconvolgimento istantaneo della sua ragione. Il suo delitto fu espiato dalla sua vita, e l’espiazione lo precedette; vi fu in esso dell’amore, direi quasi del genio; — le fasi dell’esistenza umana hanno poche pagine più sublimi, e le nostre passioni si elevarono di rado ad una potenza più smisurata: — si può dire che [150] l’ultimo giorno di Bouvard fu il riassunto di tutta la sua vita.

Le notti nel mezzogiorno dell’Italia hanno in sè qualche cosa di voluttuoso e di molle; — il cielo è più elevato, l’azzurro più trasparente, le stelle più numerose e più lucide, — i fiori delle magnolie caduche e dell’arancio che si schiudono due volte all’anno, impregnano l’aria dei loro profumi delicati, e vi ha in essi qualche cosa che gli altri fiori non hanno, vi si sente l’amore, vi si respira la gioventù e l’abbandono. Ho domandato più volte a me stesso, perchè il cielo abbia destinate quelle ore al riposo: ma forse la notte è la scena più calma e più meravigliosa della natura per ciò solo che è in essa che gli uomini amano. Oh la sublime epopea della notte! Io vorrei conoscere se i morti conservano ancora sopra il loro giaciglio di pietra una parte della loro vita morale; se quella polvere, — poich’ella esiste, — ha la coscienza dell’esistere. Nella grande oscurità che avvolge tutti i segreti della natura, io credo che nessuno possa sorridere di questo pensiero: la superstizione ha pure i suoi diritti, giacchè è dalle sue tenebre che uscirono in ogni tempo i primi barlumi della verità e della luce. Ma avete voi mai passato una notte in un cimitero? — Il silenzio vi è più tetro che in qualunque altro punto della terra, e non per ciò vi sembrerà meno di sentire qualche cosa che [151] vive, che pensa, che si agita sotto di voi. — Certo se i morti vivono, la debb’essere una vita di solenni meditazioni... E come passano essi quelle lunghe notti d’inverno?... quegli anni infiniti della loro muta esistenza?... Alla pioggia, al sole, alla neve... Povere anime! — No, egli non è vero che la morte uguagli tutti i destini; la ricchezza ha preparate le sale sepolcrali, e vi mantiene ancora un raggio di quella luce, di cui essi erano così avidi nella vita.

In una di quelle più splendide dimore fu collocata la salma di Giulia, e la giovine riposa sopra il suo lenzuolo di gramaglia come in mezzo ai veli del suo letto verginale. La sua bellezza ha nulla smarrito delle sue seduzioni; un abito bianco, leggiero, quasi vaporoso, ricopre le modeste sue forme; i suoi cappelli neri e disciolti sono trattenuti sulla fronte da una corona di tuberose ancora fresche, le sue mani bianchissime le cadono dai fianchi coll’abbandono soave del sonno, e solamente i suoi piedi diritti e riuniti fanno fede dell’orrida rigidità della morte.

Bouvard penetra in quel luogo colla gioja scolpita sul volto, con quella trepidazione affannosa ma dolce che ci accompagna al primo convegno colpevole della donna desiderata. Il ribrezzo non lo trattiene, non frena la sua impazienza, non ammorza l’avidità irresistibile della sua passione: — ma ogni indugio può essere fatale al suo [152] disegno, — è d’uopo affrettarne l’esecuzione; — il suo oro gli ha procurato dei complici... egli invola il cadavere della fanciulla, e pochi istanti dopo è lasciato solo con lei nella sua dimora solitaria e segreta.

Allora il giovine la adagia con dolcezza sopra uno strato di fiori, — poi s’inginocchia e la guarda... quell’abito candidissimo, quelle lunghe trecce disciolte, quel corpo che si abbandona e quasi si affonda coll’immobilità della morte in un letto profumato di verzura, — quella luce abbagliante che vi tinge ogni oggetto del colore dell’oro e del topazio, formano uno strano spettacolo che esalta e rapisce la mente immaginosa di Bouvard. — Ma egli non ha ancora osato sollevare il velo che nasconde il suo volto: — egli trema di quelle sembianze, teme che la morte ne abbia già alterata la bellezza, paventa quello sguardo fisso e severo che deve rinfacciargli colla sua terribile immobilità il suo delitto. Mille pensieri si agitano allora nella sua anima conturbata, il pensiero della sua vita sofferente, dell’inutile suo amore, del suo genio infelice, di quell’abbandono di sè stesso che lo trasse di giorno in giorno, sempre esitante, e sempre sfiduciato fino a spegnere la sua vita in una colpa: — giacchè egli sente la prossimità del suo fine, giacchè egli ha deciso irrevocabilmente di morire... morire presso di lei, — presso di quella [153] donna al cui fianco non ha potuto trascorrere quell’esistenza avventurata e innocente che era stata il suo sogno d’un istante.

A questo richiamo gli si affacciano tutte le memorie della prima giovinezza, di quegli anni confidenti e felici, quando l’avidità dell’ignoto gli dipingeva di mille colori vaghissimi le scene future della sua vita: — quelle illusioni, quei sogni, quella fede balda e sicura, — quel sorridere cortese della fortuna, — quell’amore universale che avrebbe voluto spargere delle rose sulle teste di tutti gli uomini, — quel vagheggiare un nido e una famiglia e perpetuare la nostra esistenza in altri esseri nati da noi, — quell’ideare il bene e compierlo, e prefiggerselo all’unico scopo della vita... aspirazioni menzognere e crudeli! Nulla gli è rimasto di ciò: egli ha sofferto, egli soffre, ecco tutto, ecco la sintesi delle sue speranze, — egli ha dinanzi un cadavere, e l’ultimo de’ suoi giorni sta per compiersi con un delitto. — Bouvard si commove e piange. — Vi ha in quel periodo di calma morale che precede la morte un istante di lucidità straordinaria nel nostro intelletto, durante la quale si va svolgendo dinanzi ai nostri occhi tutta la tela tenebrosa del nostro passato. Gioje, dolori, predilezioni, memorie, affetti, colpe tutto ripassa dinanzi a noi, tutto vi è evocato dalla inesorabile coscienza: e felici coloro le cui rimembranze [154] soavi e confortevoli non lasciano nulla a rammaricare della vita!

Bouvard ha rivolto lo sguardo sul suo passato, e non vi ha scorto che un deserto senza limiti, una landa senza oasi, senza acqua, senza verzura, senza sorriso di cielo: — ventinove anni sono trascorsi, ed egli non ha raccolto un solo di quei fiori di cui la natura fu sì prodiga a tutti gli uomini; — egli non ha spiccato dall’albero dell’esistenza che un solo frutto, un frutto amaro e velenoso, il più crudele fra quanti ne maturino sui suoi rami — il frutto della derisione.

A questo pensiero la mente del giovine; smarrita nell’abisso delle sue rimembranze, ritorna d’improvviso a sè stesso, alla sua deformità, a Giulia: — egli osserva quel corpo inanimato e leggiadro che gli sta dinanzi, — quella creatura sì lungamente desiderata, — quella fanciulla che fu un tempo sì bella, sì lieta, sì incurevole, il cui amore lo avrebbe consumato nell’esuberanza della sua felicità, il cui odio lo ha tratto invece per una ostinata potenza di volontà a sopravviverle.

E d’onde procede quello sgomento incomprensibile che ci arresta dinanzi a un cadavere? Che è egli questo rispetto ipocrita e vano che ci trae silenziosi e dimessi dinanzi a un mucchio di polvere che si dissolve? Oh! la sfacciata impudenza che curva le ginocchia degli uomini all’aspetto [155] delle relique di un essere, di cui si è talora manomessa la felicità, e avvelenata a mille riprese la vita!

Ma non è tale la posizione di Bouvard: egli solo ha sofferto, egli è la vittima; egli vorrebbe elevarsi a giudice sopra di lei, ma un interno convincimento gli dice che non gli anni misurano l’esistenza, ma la felicità, la sola, la irrevocabile felicità ch’egli ha perduto: — quella fanciulla è morta, ma fu felice; egli vive ma soffre, — egli non le sopravvisse che per rimembrarlo.

L’anima del giovine si agita crudelmente a questo pensiero che lo ripiomba ne’ suoi propositi di vendetta: — quel cadavere sembra ora stargli dinanzi minaccioso... forse egli vede, egli sente; egli sorride, egli si agita sotto il suo lenzuolo funerario... Bouvard si rialza impetuoso, e strappa il velo che copre il viso della fanciulla. — Dio! quale bellezza irresistibile! — E può il volto d’una defunta essere ancora così bello? Un’espressione di calma celeste si diffonde sulle sue sembianze, le guancie sono tuttora leggermente rosate; la fronte candida e pura, le labbra e gli occhi socchiusi, l’epidermide trasparente e bianchissima: — non vi ha nulla di spaventevole in lei, nulla che possa essere più vago, più dolce, più allettante nella vita... essa riposa, — essa dorme — come dormono i fanciulli a sette anni, quando non si sognano [156] che delle nubi, delle farfalle e degli angeli... tutte cose che volano, volano, e vanno verso il cielo.

Vi sono due soli e grandi avvenimenti nell’esistenza che possano dare ai nostri volti un raggio di quella bellezza celeste che sfugge a qualunque manifestazione, e sono l’amore e la morte — due cose sorelle, — l’estasi dell’uno, e la calma che succede all’altra. Coloro che hanno amato e che furono amati lo sanno: — quella bellezza non è della terra e non dura, è qualche cosa di aereo che si posa un istante sulle nostre sembianze e svanisce, — essa si vede, ma è inesplicabile: — è forse una luce di lassù che discende a benedire i due atti più solenni della vita, l’amore che ci rende degni del cielo, e la morte che ci concede di raggiungerlo.

Io ho pensato più volte che se tutti gli uomini si innamorassero ad un tempo, la società sarebbe in un attimo trasformata: l’età dell’oro non sarebbe più quella favola allettante di cui si ride come dei sogni dei fanciulli. — Ogni uomo che ama è buono e grande. — I poeti sono uomini che amano.

A quella vista Bouvard si arresta colpito dall’entusiasmo: l’incanto di quella bellezza lo rapisce ed eccita la mente fervida ed immaginosa del giovine. Nel suo atto violento, egli ha scoperto una parte del seno della fanciulla: — essa gli appare come una statua rovesciata di Fidia, come [157] una di quelle immagini di vergine greca, che il turbine ha divelto dalla loro base, e che s’incontrano talora mezzo sepolte tra i corimbi e le foglie oscure delle ellere, nelle isole solitarie dell’Egeo. Divina bellezza! — E perchè non gli è dato di rianimarla? di spirarle il soffio della vita che Dio ha riserbato a sè solo? Ma Giulia lo odierebbe vivendo; — e non lo ha ella deriso?

Il giovine rimane lungo tempo silenzioso, — poi il suo volto assume un’espressione tetra e risoluta, — egli si curva sopra di lei, egli vuole abbracciarla... «nessuna donna, egli dice, si è data mai con maggiore abbandono ad un uomo»... Bouvard sorride seco stesso di questo orribile pensiero, — china il capo sopra di lei e ne bacia le labbra irrigidite dalla morte. Quale contatto! Egli si scuote, egli trasalisce inorridito, egli raccapriccia di quel gelo; e ricade prostrato dinanzi alla fanciulla. Allora egli piange, egli invoca, egli prega, — vorrebbe amarla, adorarla, come una santa, e lo trattiene la memoria del suo passato; — vorrebbe odiarla, e lo arresta quell’immagine soave di angelo. Alcuni istanti dopo egli vaneggia e delira, — egli ripete ad alta voce il nome di Giulia, il nome della fanciulla adorata, e si abbandona al suo dolore disperato e selvaggio. — Poi l’asfissia dei fiori assopisce a poco a poco i suoi sensi, inebria e confonde la [158] sua ragione: — egli prova come delle vertigini, — vede come degli oggetti che si muovono, — ode un bisbiglio di voci incomprensibili, — ripassano dinanzi a’ suoi occhi delle strane figure che lo guardano e sogghignano... egli si agita, vorrebbe avventarsi contro di esse, tenta di rialzarsi brancolando nel vuoto, — e ricade spossato presso il cadavere della fanciulla...

················

Certo Bouvard non incontrò una morte così sùbita, nè così violenta, poichè i vicini raccontarono al mattino di aver inteso nelle ultime ore di quella notte dei gemiti e delle grida soffocate; — ma ciò che aveva colpito maggiormente la loro immaginazione, era stato un suono di violino, da cui erano rimasti affascinati e sedotti come da un’armonia soprannaturale; — nè mai s’indussero a credere per quante prove ne venissero lor date, che quella musica fosse stata l’opera di un uomo.

Tale fu l’ultima creazione di Bouvard, l’ultimo lamento della sua anima, l’agonia sublime del suo genio. Vi erano in essa tutte le voci della natura, vi era il bisbiglio del vento e l’aleggiare dell’uccello, il susurro dei piccoli steli e il fremere dei grandi fusti dei cerri, lo scorrere del filo d’acqua e il frangersi delle onde dell’oceano, — vi era tutto ciò che il suono ha di aspro e di dolce, di soave e di orribile. — Sfortunati coloro che udirono quella [159] musica! La voce degli esseri più diletti, la parola di padre pronunciata la prima volta dal labbro del fanciullo, la prima rivelazione d’amore della donna adorata, non hanno avuto più nulla di soave, nulla di allettante per essi.

Il domani la fama di un sepolcro violato si diffonde per la città; — si cerca il cadavere di Giulia, — gli indizii de’ suoi complici guidano alla soffitta di Bouvard; — si chiama, nessuno risponde, — si batte, nessuno apre: — allora si atterrano le porte... orrendo spettacolo! — tutti quei fiori erano calpestati e dispersi, molti oggetti infranti, i veli della fanciulla lacerati, — dovunque le traccie di una lotta disperata e inuguale.

Non era Giulia morta? o le preghiere del giovine avevano avuto potere di rianimarla un istante?......

················

Scheggie e frantumi di violino giacevano sparsi sul pavimento, ed un corpo deforme, inanimato, stringeva convulsivamente il cadavere della bella Giulia... — Bouvard era morto!


INDICE

Lorenzo Alviati Pag. 5
Riccardo Waitzen 67
Bouvard 113

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine libro.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.